 |
Religiosa
delle Mercedarie della Carità, ha cominciato i suoi studi teologici di
nascosto, insieme a quelli di psicologia. Indica nel ritorno al Vangelo
– che è libertà – e allo studio interdisciplinare delle Scritture il
superamento dei problemi ecclesiali e della misoginia imperante.
Mercedes
Navarro Puerto ha da poco oltrepassato i cinquant’anni, nata com’è
a Jerez de la Frontera (Cádiz), il 26 aprile del 1951. Minuta, elegante,
vivace, si fa fatica a pensarla "religiosa". Appartiene invece
alle Mercedarie della Carità sin dal 1968. Maria Mercedes Navarro Puerto
è un personaggio interessante, prezioso soprattutto per un percorso
personale che ha saputo mettere insieme ambiti disciplinari diversi. Ha
lasciato che la sua vocazione religiosa si intrecciasse alle scienze
umane, alla psicologia in particolare; non ha disatteso il fascino della
Scrittura, armonizzandolo con i suoi interessi di psicologa; né ha mai
smesso di sottoporre a vaglio la stessa vita religiosa. Ne è venuto fuori
uno straordinario percorso. Troppo semplice dire che Mercedes Navarro
Puerto è una delle più note e stimate teologhe spagnole! Ho avuto
ripetute occasioni di incontrarla a Roma, nel contesto dei Simposi
mariologici internazionali del Marianum, ai quali è stata più volte
relatrice. L’intervista che segue ha avuto luogo via e-mail. Spero d’avere
rispettato traducendole in italiano le sue risposte. In gran parte ha
fatto riferimento al profilo biografico da lei stessa tracciato nel volume
Panorama de la teologia espagnola, EVD, Estella (Navarra), 1999. In
esso i temi qui affrontati trovano spazio e respiro più ampio.
- Cara Mercedes, cosa ti ha indotta a studiare
teologia?
«Non entrava nei miei piani. No davvero! Né miei, né
di quelli che mi stavano attorno. Finivano gli anni ’70. Avevo
cominciato alla Pontificia università di Salamanca il mio terzo anno e in
esso il mio primo corso su Freud e la psicanalisi. Stimolata da padre
Fernandez Villamarzo mi sono immersa nelle opere di Freud; nello spazio di
soli due mesi mi sono ritrovata non solo a conoscerlo a fondo, ma a
mettere a fuoco non poche domande su me stessa, sulla vita, sul rapporto
uomo-donna e l’esperienza religiosa. In quell’anno e in quegli stessi
mesi acquistai coscienza sulla mia condizione di donna. Mi apparvero
chiare insomma – come non mai – tutte le questioni connesse all’identità
di genere.
Non erano problemi che nascevano in quel momento. Avevo
combattuto già per i diritti miei e delle donne; non però con quella
consapevolezza folgorante. Erano appena passati tre anni dall’esperienza
fatta come Mercedaria della Carità presso una comunità al cui interno i
chierici consideravano poco le religiose, mantenendole in un ruolo
subalterno e pagandole poco, secondo un’interpretazione interessata del
servizio evangelico. Di fronte alle proteste fummo insultate, io
specialmente, e abbandonammo l’esperienza. Tutto ciò mi ritornò
dolorosamente e rabbiosamente presente durante i miei studi di psicologia.
La vita religiosa non mi aveva preparata a questo tipo di problemi.
Cominciai perciò a riflettere e ad affrontarli insieme ad altre donne,
soprattutto religiose.
- Che c’entrava la teologia con i tuoi problemi?
«Quanto alla teologia, bisogna dire che avevo tutto
contro. Mi trovavo in una crisi a tutto campo alimentata da tre diversi
problemi: la psicologia, la coscienza di genere, la struttura della vita
religiosa. Ebbene, malgrado le difficoltà, tra la sorpresa degli altri e
di me stessa, intrapresi di prepotenza lo studio della teologia. Lo feci
senza permesso, temendo, a ragione, che mi sarebbe stato negato. Ero a
tutti gli effetti una studente di psicologia e frequentavo ciò malgrado
corsi di teologia. Sfruttavo i tempi liberi, secondo il ritmo dell’anno
accademico. Da venti anni la mia congregazione non aveva più teologhe. Ci
dedicavamo ad assistere i poveri, soprattutto in ambiente rurale. Avendo
seguito l’Università nazionale di educazione a distanza (Uned), univo
già attenzioni di tipo psicoterapeutico e pastorali. Diciamo che questo
entroterra manifestava già il mio gusto per la ricerca e l’urgenza
assai avvertita di trovare forme nuove in cui tradurre la mia missione
come donna e come religiosa».

Una veduta di Salamanca con in
primo piano il ponte romano.
Nella sua Pontificia università ha studiato Maria Mercedes Navarro Puerto.
- Ti è stato utile il tuo bagaglio psicologico o non
è diventato, piuttosto, un ostacolo?
«Avvertivo prepotente il nodo dell’interdisciplinarità.
Avevo radicalmente bisogno della teologia. E, tuttavia, la psicologia,
specialmente la psicoanalisi e la psicologia della religione, facevano
franare non pochi elementi, conoscitivi ed emotivi, su cui si fondavano la
mia fede, la mia coscienza ecclesiale e religiosa. La teologia, quanto
meno all’inizio, mi offrì alcuni argomenti che mi aiutarono a pensare
la fede senza entrare in conflitto con le ragioni (o le non-ragioni) che
la psicologia metteva a nudo. Mi mancavano dati e, ancor di più,
categorie adeguate; non sapevo se il mio pensare Dio fosse una fantasia,
una pura e semplice costruzione personale, elaborata a mia difesa e
comunque infantile. Antonio Vázquez, mio docente di psicologia della
religione – lo sostituirò non appena sarà emerito – mi ha insegnato
due cose, per me assai utili, e che, a mia volta, trasmetto ai miei
studenti: l’agnosticismo metodologico di questa disciplina e la fiducia
sul fatto che fede e scienza possono e debbono compenetrarsi. Fu lo stesso
professore, qualche anno più tardi, a dirigere la mia tesi di dottorato
in psicologia. Davvero devo a lui l’apertura all’interdisciplinarità.
Nel frattempo studiavo cristologia con Olegario González de Cardedal,
teodicea e teologia trinitaria con Xabier Pikaza. Leggevo e studiavo su un
doppio binario: la teologia dopo la psicologia e la psicologia dopo la
teologia».
- A questo punto, avrai dovuto fare i conti con un
altro problema...
«Sì, quello posto dall’intreccio della teologia con
il femminismo. Devo riconoscere però che si trattò di un problema minore
rispetto alla questione del "genere". Il primo saggio di
teologia femminista che mi capitò di leggere a margine del corso sulla
teodicea e la Trinità fu Mujer nueva, tierra nueva, di Rosemary
Radford Ruether (Buenos Aires, 1977). Mi venne suggerito con le avvertenze
di rito, a ragione delle tesi radicali in esso sostenute. Posso ancora
rivivere l’impatto con questa lettura, la voglia di conoscere che fece
nascere dentro di me... Un marasma di sentimenti... Le questioni poste
dalla psicologia erano davvero poca cosa rispetto alla messa in gioco che
comportava la lettura di quest’opera. Ho scritto che, da quel momento,
niente per me fu più uguale. Sospetto e rabbia compenetrarono tutto
quanto avevo sin lì acquisito».
- Hai scritto che ti sei accostata alla teologia con un
atteggiamento assai diverso da quello dei giovani studenti orientati
al presbiterato. Avevi 28 anni e sapevi bene cosa muoveva la tua
ricerca nella triplice interconnessione di femminismo, psicologia,
statuto istituzionale. Eri e restavi una religiosa...
«Sì e questa mi appariva una difficoltà aggiuntiva
nella ricerca di percorsi nuovi. Alla fine dei miei studi di psicologia
fui mandata vicino a Madrid, a lavorare presso un centro di psicolabili.
Non riuscivo ad accettare l’idea di abbandonare la teologia. Ma non era
della stessa idea la mia superiora provinciale. Per lei era importante che
lavorassi, che portassi avanti la mia carriera. Se ne sarebbe riparlato di
lì a un anno. Senza cessare di studiare per mio conto, passato l’anno,
tornai alla carica con un programma che mi consentiva insieme di studiare
e lavorare. Cominciai così una nuova tappa presso la Pontificia
università di Comillas. La psicologia costituiva il terreno fertile su
cui venivano a inserirsi le diverse discipline teologiche. Non mi dava
pace la questione del "genere" che diventava invece uno dei
punti fermi della mia ricerca».
- E a questo punto ti sei imbattuta nella Scrittura...
«Sì, fu proprio questa la nuova grande novità.
Leggevo la Bibbia secondo ottiche diverse e di grande valore, soprattutto
nell’ambito dell’AT. Goyo Ruíz mi avviava alla prospettiva critica e
sociale dei profeti, José Ramón Busto alla critica letteraria. Fui così
iniziata al metodo storico-critico. Mi fu offerta una grande attrezzatura
metologica che mi ha indotta a specializzarmi in Scrittura. Purtroppo non
posso dire lo stesso per il NT».
- Come vivevi questo intreccio di studio e di
esperienza? Non ti immagino disincarnata e astratta.
«No! Scoprivo alcune cose e mi interrogavo su altre
ancora. Innanzitutto la mia teologia era assai legata alla mia vita e alla
vita. La vivevo assai diversamente da come la vivevano gli altri studenti,
i maschi soprattutto. Quanto alle studentesse, eravamo così poche...».
- Potrei dirti le stesse cose. Tra i colleghi maschi, i
più aspiravano al ministero e subivano, quasi, la teologia...
«Bisogna riconoscere che la teologia accademica spesso
appare separata dalla vita, propria e altrui. Tutto ciò ha ricadute
negative sui giovani studenti, donde il loro scarso entusiasmo. Se la
teologia non è attraversata da una passione vitale, dubito che possa
essere importante per la fede, per la catechesi o per la vita. Certo, la
teologia è una scienza e non si può dimenticarlo. Ma non è una scienza
alla maniera delle altre. Se ogni sapere – e oggi avvertiamo bene il
problema – deve avere una ricaduta sulla vita, a maggior ragione ciò
deve caratterizzare lo studio della teologia».
- Dunque una teologia concreta, viva. Ma ciò richiede
una sinergia, attenzione ai saperi altri.
«Sì, la teologia ha bisogno di dialogare con le altre
scienze. Ad
esempio, come si può studiare teologia morale senza chiamare in causa le
scienze tutte che di volta in volta toccano i singoli suoi problemi?
Continuiamo a elaborare l’etica teologica prendendo in prestito temi e
suggestioni dalla teologia sistematica! Proprio in questo campo appare
dolorosa ed evidente la cesura tra la teologia accademica e la vita. Mi
pare invece esemplare il metodo perseguito nelle scienze bibliche. Là
veramente occorre prodursi in una interdisciplinarità molteplice e
concreta, enormemente feconda. Nessuno può ignorare la storia se vuole
leggere e comprendere la Bibbia; né si può fare a meno dell’archeologia
o dell’analisi filologica o di altre discipline ancora. Solo così la
parola di Dio viene veramente offerta a ogni credente. È una rivoluzione
senza pari che investe anche le altre discipline teologiche».
- Come tutto ciò tocca le donne?
«Oggi la teologia per loro è un ostacolo, un
impedimento. Ma, insieme, è una sorgente immensa di ricchezza. Dobbiamo
alla vita religiosa femminile la formazione teologica di non poche donne.
Il loro numero, tuttavia, non è così grande da risultare incisivo. La
maggioranza delle religiose rimane non teologicamente formata. Le si
dirotta verso corsi di minore importanza. Le congregazioni considerano lo
studio della teologia come una perdita di soldi e tempo. E ho motivo di
credere che ciò obbedisca a un preciso disegno. Una religiosa che sia
medico, psicologa, sociologa o esperta di informatica, non minaccia il
sistema. Una religiosa teologa, sì. Né è diverso l’atteggiamento
verso le laiche. Possono sì studiare teologia, ma poi anche morire di
fame».
- Hai scritto che far teologia è stata un’avventura
appassionata e appassionante...
«Sì, lo studio della teologia mi ha cambiato la vita,
il modo di guardarla, di intenderla. Ne ho preso coscienza soprattutto al
termine della mia specializzazione in Scrittura. Avevo deciso per la
teologia, per la Bibbia, a essere più precisa. Non avevo alcuna
intenzione di abbandonare la psicoterapia. Sapevo però che la mia
professione sarebbe stata quella di teologa. Nel farne parte alla mia
superiora provinciale, nell’operare il discernimento richiesto dalla
regola, mi sono resa conto di quanto ciò fosse importante. Ho dovuto
discutere, confrontarmi, dialogare, dare delucidazioni, rispondere e
prevenire le diverse difficoltà. Posso ben dire che sono stati giorni
duri ed esaltanti insieme. Grazie a essi oggi posso definirmi teologa e
biblista e, insieme, Mercedaria della Carità, senza sentirmi al margine.
Davvero la scelta di frequentare il Biblico fu una scelta condivisa. Non
si trattava di un semplice percorso formativo ma, piuttosto, di prepararsi
a esercitare un preciso compito, ricercando e scrivendo».
- La tua storia è affascinante, ma dubito che me la
lascino scrivere per intero...
«Lasciami ricordare le aule del Biblico. Il mio
incontro con le narrazioni bibliche e con il metodo narrativo. Fammi
ricordare Jean Louis Ska (AT) e Jean-Noël Aletti (NT), Albert Vanhoye e
Pietro Bovati. Quanto avevo appreso, a partire dal metodo storico-critico,
venne a integrarsi con metodologie di tipo "narrativo". Sono
arrivata alla conclusione che tutti i metodi sono strumenti con
possibilità e limiti. L’importante è avvalersene per analizzare e
comprendere al meglio i testi. I racconti biblici, colti nella loro
valenza narrativa, mi hanno rivelato un mondo di grande umanità, di fede
bella e profonda, mischiata tuttavia agli aspetti oscuri dell’essere
umano. Scoprivo in essi il volto di Dio che si fa presente nella storia
degli uomini, che si lascia circoscrivere da tempo, spazio, figure,
azioni, convenzioni, cultura. Il metodo narrativo applicato ai vangeli mi
ha rivelato un volto di Gesù vulnerabile, ma proprio per questo meno
manipolabile. L’incontro con il Gesù narrato da Marco ha trasformato la
mia cristologia».
- In Italia noi teologhe abbiamo qualche difficoltà a
dirci femministe. Non mi pare il tuo caso...
«No davvero. Tutta la mia teologia è una teologia
femminista. Tutta la mia ricerca è segnata dal "genere". Spesso
se ne argomenta che quella delle donne è una teologia separata, parziale.
In verità le donne fanno teologia a partire dalla coscienza d’essere
donne. Corrono in proposito molti equivoci e sarebbe lungo smascherarli
tutti. Rinvio a quanto ho più volte scritto. Il genere non è una
prospettiva tra le altre, ma piuttosto un a priori che sigilla la
nostra stessa umanità e supporta il nostro pensare, i nostri affetti, le
relazioni sociali, la nostra cultura e così organizza la stessa realtà.
Facciamo teologia come uomini e come donne in tutta la complessità che
questo implica. Noi teologhe spagnole diamo conto della nostra coscienza
di genere; il che ci apre alle dimensioni nuove della nostra coscienza di
razza, classe, cultura. Proprio per lavorare insieme, ricercare, esprimere
in teologia la nostra identità di genere, insieme ad altre, ho fondato l’Associazione
delle teologhe spagnole».

La storia di Rut. «I racconti
biblici mi hanno rivelato
un mondo di grande umanità».
- Pare di capire che alla fine ti diverti. Insegni,
scrivi, lavori...
«Sì, sono impegnata all’Università; vivo la gioia e
la fatica dello scrivere. Dedico a quest’ultimo impegno la maggior parte
del mio tempo. Sarebbe lungo mettere in circolo ciò che provo. Se le
certezze di fede sono permanenti, la teologia è una costruzione destinata
ad acquisire una forma sempre nuova. Il che non è quanto avviene oggi.
Uno dei problemi che incontro è quello della difficoltà della teologia
circa l’aprirsi alla realtà. Si percepisce una visione
aprioristicamente negativa del mondo e degli esseri umani. Se negli anni
passati la teologia si è fatta carico dei poveri e delle ingiustizie
strutturali, oggi tutto ciò pare lontano. Ci mancano un linguaggio,
categorie incisive. Le donne ci provano a cercare vie nuove e a livelli
diversi, accademici, pastorali, spirituali. Si pensi ai gruppi di donne
che operano nelle parrocchie, che riflettono e studiano la Scrittura, che
ripensano la vita religiosa. C’è una indubbia domanda, una esperienza
molteplice e ricca, la cui complessità va accolta e orientata».
- Prova a fare un bilancio...
«Mi sembrano evidenti certe difficoltà. La teologia ha
bisogno da una parte di libertà, di poter riflettere a tutto campo senza
impedimenti preventivi. Al tempo stesso è necessario aprire la teologia
oltre l’ambito riduttivo dei soli chierici per renderla accessibile,
quale diritto, a ogni persona che si sente chiamata a questo compito.
Perché ciò avvenga, occorre porre in atto mezzi adeguati. D’altra
parte occorre liberare la teologia da altri compiti e servizi ecclesiali.
Altro è la catechesi, la predicazione, altro è il magistero. Confondere
le cose non giova. Quanto poi alla difficoltà che avverto tra teologia e
vita, tra la fede e la cultura contemporanea, qui, a differenza di quanto
avviene nel processo di evangelizzazione (che funziona nella doppia
direzione della fede e della vita), la teologia dipende di più dal
percorso di andata che da quello di ritorno (dalla vita e dalla cultura
alla teologia, più che dalla teologia alla vita e alla cultura). Tuttavia
è possibile che si incontrino a metà strada. In tutto ciò mi piace la
teologia. Ho lottato molto per essere teologa e per poter esercitare la
professione di esegeta e di biblista. Se da una parte ciò mi appare come
una conquista, dall’altra non posso che vedervi un dono del Signore».
- Ancora una domanda sulla Chiesa, sul futuro della
Chiesa...
«Mi sento Chiesa a pieno titolo e prendo parola come
membro di essa. Non distinguo tra Chiesa gerarchica e Chiesa di popolo,
tra Chiesa che vive la sua fede molte volte ai margini (o controcorrente)
rispetto alla prima, nella quale, quando mi guardo intorno, scopro molta
paura. Questa paura mi preoccupa non poco: ciò che mi ha fatto gioire,
ciò che mi ha condotta a una maggiore maturità, ciò che mi ha permesso
di seguire Gesù... è la libertà, il sapere, per esperienza, che la mia
Chiesa è plurale e diversa, che lo è sempre stata, non come un male
minore, ma per peculiarità sua costitutiva. Oggi, senza dubbio,
percepisco la paura come inibitrice della libertà. Se le cose stanno
così, rischiamo di allontanarci dal Vangelo senza rendere né possibile
né credibile la costruzione del regno di Dio. Se ci allontaniamo dal
Vangelo incrementiamo la paura. Ce ne allontaniamo senza opporre
resistenza e ci lasciamo intimidire. Sarei davvero una cattiva Mercedaria
della Carità (il nostro tratto distintivo sono la libertà e la
liberazione) se, quanto meno, non fossi cosciente della necessità di
vivere nella libertà e di dover promuovere spazi di libertà per tutti
gli esseri umani. Determinarsi alla ministerialità della teologia è una
questione di libertà. Il/la teologo/a deve essere libero/a, perché parte
dalla fede; perché non c’è ragione di supporre che la fede si opponga
alla libertà del suo pensare. Niente è più libero della fede stessa. La
teologia, su questa base, dovrebbe promuovere la riflessione più libera e
liberatrice mai esistita al mondo».
- Ti preoccupa qualcos’altro oltre la paura?
«Sì, mi preoccupa la mancanza di trasparenza che in
alcuni casi caratterizza, con grave danno, l’istituzione ecclesiale. Non
si tratta di non reggere allo scandalo. Si tratta del discredito, della
squalifica che ciò comporta per la stessa istituzione che sappiamo
ispirata dallo stesso Gesù; si tratta dello sconforto e dello scetticismo
che tutto ciò produce. La soluzione non sta nel nascondere gli scandali
quanto piuttosto nello sradicarli. L’anno che si è chiuso
disgraziatamente ne ha visti, in Spagna, di diversi e importanti, anche
per l’eco avuta nell’opinione pubblica, grazie ai mass-media. Mi
riferisco alle violenze inflitte dai chierici alle religiose, agli abusi
degli stessi sui minori, agli scandali finanziari, protagonista dei quali
è stato il clero».
- C’è ancora il gravissimo problema della diffusa
misoginia...
«Sì, parlerei di misoginia strutturale, trattandosi di
un male endemico. Vedo continuare l’esilio delle donne, la loro assenza
nell’istituzione ecclesiale; avverto che alcune restano, mentre altre
vanno via..., e sono tentata di pensare che un cambiamento autentico non
sia possibile. La reazione prodotta da un qualsiasi tema connesso alle
donne deve dare a pensare. Né va dimenticato che la misoginia strutturale
tocca sia gli uomini che le donne. Non poche, tra di esse, danno forza al
sistema patriarcale frenando ogni spinta in avanti. Ciò malgrado, mi dà
molto coraggio incontrare tante donne che si sentono Chiesa e per ciò
lottano e resistono, ricominciando mille volte le stesse cose».

Una donna afghana accanto alla
sua tenda.
Se anche loro «mangeranno ogni giorno almeno due volte,
questo mondo sarà migliore», dice la teologa spagnola
(foto Nino Leto).
- Hai da proporre strategie?
«Ciò che propongo è di resistere alla paura così da
recuperare la fede (che nel vangelo di Marco appare come l’unico
antidoto), così che questa nostra Chiesa possa diventare uno spazio
concreto di libertà. Ciò che propongo è di promuovere quelle condizioni
che rendano possibili la trasparenza e la verità evangeliche. Di non
cedere sull’impegno per l’uguaglianza (nella diversità), così da
avviare la fine di ogni sessismo, di ogni razzismo, di ogni classismo e di
ogni altra emarginazione contraria all’inclusività di cui è manifesto
il Vangelo».
- Qual è il tuo giudizio sulla situazione politica
internazionale e quale, secondo te, il possibile contributo delle
donne?
«Nella situazione attuale non vedo niente di nuovo. Mi
pare scandalosa per l’enormità della sua ingiustizia e della sua
violenza. Detto questo, sono persuasa che nel nostro mondo e nelle sue
strutture ci siano molte cose buone, tanta creatività, tanta generosità,
tanta attenzione alla vita..., che l’ingiustizia e la violenza non
consentono di cogliere e che i mass-media non sono interessati a far
conoscere, perché non trovano acquirenti. Penso, senza andare molto
lontano, a tutto quello che ogni giorno fanno le donne in ogni parte del
mondo, a quello che conseguono, che producono, creano, restaurano; a ciò
che inventano e alla felicità che promuovono intorno a loro. Sino ad ora,
nella percezione della realtà, predomina la visione patriarcale e con
essa la violenza e l’ingiustizia che sono l’evidente prodotto delle
strutture patriarcali capitaliste e imperialiste. Se penso all’entità
dell’ipoteca rappresentata da tale condizione strutturale, posso essere
ottimista solo peccando d’ingenuità. Non credo, tuttavia, che le donne
debbano far niente di diverso da quello che fanno gli uomini. Non desidero
che si carichi sulle loro spalle la responsabilità di salvare il mondo.
Se potranno essere felici, se potranno soffrire meno, se potranno essere
trattate come persone e con la dignità che ne consegue; se potranno
acquisire strumenti formativi e ottenere un posto di lavoro ed essere
pagate com’è giusto; se potranno realizzare con i loro partners,
su un piano di parità, il loro compito procreativo; se potranno inserirsi
in tutta normalità negli uffici pubblici e nella vita politica; se
potranno smettere d’essere minacciate; se mangeranno ogni giorno almeno
due volte..., questo mondo senza alcun dubbio sarà migliore. Tutto
questo, però, il più delle volte, non dipende da loro. È, dunque, il
sistema che va cambiato, perché, cambiando in esso anche le donne, il
mondo possa divenire un luogo abitabile da tutte e da tutti».
Cettina Militello
Le pubblicazioni
LE PARABOLE DI
MERCEDES
La bibliografia di Mercedes
Navarro Puerto spazia dalla psicologia alla Scrittura, alla vita
religiosa e altro ancora. Segnalo soltanto tra i volumi d’indole
teologica: María, la mujer. Ensayo psicológico-bíblico, ed.
Claretianas, Madrid 1987; Espiritualidad mariana del A.T., ed.
Paulinas, Madrid 1992; Barro y aliento. Exégesis y
antropología teológica de Gn 2-3, ed. San Pablo, Madrid
1993; Espiritualidad mariana del Nuevo Testamento, ed.
Paulinas, Madrid 1994: Acercamiento feminista a Gen 22 en
Biblia, literatura e Iglesia, Publicaciones Universidad
Pontificia de Salamanca, 1995; Giosuè, Giudici e Rut,
Città Nuova, coll. "Guida all’Antico Testamento",
Roma 1994; Catequesis y Familia, ed. CCS, Madrid 1994; Distintas
y distinguidas. Mujeres en la Biblia y en la historia, ed.
Claretianas, Madrid 1995; Las siete palabras de Mercedes
Navarro, PPC, Madrid 1996. Ometto l’elencazione degli
innumerevoli e svariati articoli. Ricordo solo, in prospettiva
femminista, quelli apparsi su Ephemerides Mariologicae.
c.m. |
Una vita per
studiare il genere
TRA SCRITTURA E
PSICOLOGIA
I titoli accademici di Maria
Mercedes Navarro Puerto vanno dal dottorato in psicologia (UP
Salamanca, 1989) con una tesi sulla "Dinámica del yo-alma en
Las Moradas de Sta. Teresa" (cf Psicología y Mística,
ed. San Pio X, Madrid 1992), alla licenza in scienze bibliche (P.I.B.,
Roma 1991), al dottorato in teologia (P.U.G., Roma 1996) con la
tesi "Ungido para la vida. Exégesis narrativa de Mc 14,3-9 y
Jn 12,1-8" (pubblicata, con lo stesso titolo, dalle EVD,
Estella [Navarra], 1999).
Docente di Scrittura per diversi
anni all’Università di Salamanca, e in diversi altri istituti e
centri accademici, la Navarro Puerto ha unito a questa sua
attività quella di psicologa. Molti i corsi di psicologia e
teologia da lei tenuti nei più diversi contesti (politici,
universitari, religiosi, ecclesiali). Molte le sue partecipazioni
a dibattiti radiofonici e televisivi. Attualmente divide la sua
attività tra l’insegnamento (psicologia della religione alla
facoltà di psicologia della Pontificia università di Salamanca e
alla Pontificia università Comillas di Madrid); la ricerca
(esegesi biblica narrativa; l’interconnessione tra psicologia e
narrativa biblica; la psicologia della religione; la lettura della
Bibbia nella prospettiva del "genere"; la psicologia e
il "genere", con attenzione alla violenza domestica,
alla femminizzazione della povertà e ad altri temi affini); la
pratica professionale di psicoterapia individuale e delle
attività di accompagnamento; l’attività di formazione diretta
alla vita religiosa (nella propria congregazione e in altre
ancora, anche in Paesi diversi). Partecipa poi a congressi e
incontri di livello diverso, nazionali e internazionali, su temi
relativi alla psicologia della religione, alla Bibbia, a temi
afferenti il "genere" e la vita religiosa.
Dal 1996 è presidente dell’Associazione
delle teologhe spagnole (Ate), di cui è membro fondatore; è
membro del direttivo dell’Associazione biblica spagnola (Abe);
socio "corrispondente" della Pontificia accademia
mariana internazionale.
c.m. |
Il debito verso le
altre studiose
LA PROSPETTIVA
FEMMINISTA
«In questi ultimi anni ho letto
molto di quanto hanno prodotto le bibliste», afferma la Navarro
Puerto. «So d’essere in debito soprattutto con Elisabeth
Schüssler Fiorenza. Il suo In Memory of Her mi ha
introdotta alla storia delle origini cristiane includendovi le
donne. Inutile ribadire come quella storia cambiasse. Un peso
analogo per l’AT hanno avuto per me gli articoli e i saggi di
Athalya Brenner (The Israelite Woman, Sheffield 1985).
Entrambe queste autrici si sono avvalse del metodo storico-critico.
Sono però entrata in contatto con altre, quali Phyllis Trible (Texts
of Terror, Philadelphia 1984), Sharon Pace Jeansonne (The
Women of Genesis, Minneapolis 1990), Olivette Genest, Adèle
Chené (De Jésus et de femmes, Paris-Montreal 1990) e,
soprattutto, Mieke Bal (Femmes Imaginaires, Paris 1986, e Death
and Dissimetry, Chicago and London 1988) e Adele Berlin (Poetics
and Interpretation of Biblical Narrative, Sheffield 1983). Con
esse ho imparato a studiare le narrazioni dell’AT e del NT (un
po’ meno) nella prospettiva narratologica e femminista. In
Spagna divido temi e interessi con diverse bibliste, quali Elisa
Estévez ("Y todos los que lo tocaban quedaban sanados. El
cuerpo como espacio de gracia", SalTer 1000 [1997]
323-336) e Carmen Bernabé (Las tradiciones de María Magdalena,
Estella, Navarra 1999), Núria Calduch (En el crisol de la
prueba. Estudio exegético de Sir 2,1-18, Estella 1997), Pilar
de Miguel ("Las mujeres y los documentos de Qumran" ResBib
14 [1997] 45-51), Dolores Aleixandre (Iconos bíblicos,
Santander 1999), Isabel Gómez Acebo (Dios también es madre,
Madrid 1994)».
c.m.
|
|