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Maria
Antonietta Macciocchi ha scritto la sua biografia in Duemila anni di
felicità. Diario di un’eretica (Bompiani, Milano 2001, pp.
838, con foto, H 11,36). Quest’opera monumentale ha una preistoria che
merita di essere rievocata. Apparsa nel maggio 1983, presso Mondadori, col
titolo Duemila anni di felicità, l’intrigante biografia era già
allora un rigoglioso albero (pp. 639), e fortunato diario
politico-culturale: due edizioni in sei mesi. Ne scrissi in Civiltà
Cattolica (1984 I 465-469) e quel pezzo segnò l’inizio di un’amicizia
concretizzatasi in varie opere successive: Di là dalle porte di bronzo
(Mondadori 1987) e Le donne secondo Wojtyla (Paoline 1992). E
se fin dal primo impatto (1983) mi colpiva l’impietoso gusto della
Macciocchi nello sviscerare le contraddizioni interne all’ideologia
marxista che, per oltre 40 anni, era stata la fede nella quale aveva
creduto e per la quale si era generosamente battuta, notavo pure la sua
amara felicità nel piantare una grana infinita ai suoi ex compagni di
partito.
Il Saggiatore, poi (Milano 2000), fece di quell’albero
già rigoglioso non solo un’edizione aumentata quantitativamente (pp.
838) e aggiornata con le ultime vicende biografiche della Macciocchi
(sempre intrecciate con quelle politico-culturali), ma anche le diede un
sottotitolo che indicava l’angolatura giusta per leggerla: diario di
un’eretica. Sì, perché quest’enciclopedica cronaca personale ma
insieme storia collettiva – una galleria di incontri, fatti e ritratti,
colti dall’autrice nel mezzo secolo più turbolento della storia
italiana –, va letta nell’ottica di un’intellettuale coerente fino
allo spasimo, tanto da essere giudicata un’eretica a destra e a
manca. Infine Bompiani (Milano 2001), sparita l’edizione del Saggiatore,
ha osato rieditarla pari pari, ma in edizione economica; né pare gli sia
andata male, visto che è già quasi esaurita!
Dove sta il
segreto? Senza meno nel piglio e nel taglio di
questa indomabile eretica, unica nel suo genere, ossia anomala pure
come eretica! Basterà scorrere questo volume – che, nonostante
la mole, si legge d’un fiato – per capire. Eretica di fatto la
Macciocchi è stata quando, dopo anni di gloriosa militanza, ruppe col Pci
e, proprio al fine di sprigionarne le potenzialità che teneva sotto la
cenere, provocatoriamente andò da Mao e scrisse Viaggio in Cina,
usando il maoismo come un grimaldello per liberare i compagni dalla
tirannide stalinista, che tra l’altro ergeva il muro di Berlino e
mandava le divisioni corazzate in Ungheria e Cecoslovacchia. Poi vennero
gli anni di piombo, e lei attaccò tanto duramente le Br, per difendere
Moro, che fu minacciata di morte.
Eretica fu pure quando accolse
gli esuli sovietici (Sakarov, Solgenitsin) e nessuno voleva credere all’esistenza
dei gulag; e più tardi quando si batté a fianco delle madri in plaza
de Majo e a Roma (coinvolgendovi anche il Papa). Eretica infine,
quando viaggiò rocambolescamente «in fondo alla notte», nei Paesi del
Sudest asiatico, dove «il comunismo e la morte si aggrumano nel sangue
rappreso», e gli orrori di Pol Pot a lei suonavano – con un ventennio d’anticipo
– l’estrema beffa contro tutto il suo impegno di liberazione e
promozione umana.

La Macciocchi con Bernard Henry
Levy
(foto Del Canale).
Come fu detto a
Palazzo Giustiniani (Roma, 9 maggio 2000), dall’allora
ministro G. Melandri, dal filosofo B.H. Levy e dal cardinale A.
Silvestrini – e fu confermato il 29 luglio 2000, quando la Macciocchi
vinse il Premio Chianciano (sezione autobiografica) –, la dimensione eretica
del libro ha permesso all’autrice sia di contestare il Pci dall’interno,
sia di avere rapporti con personaggi di altre culture e ideologie. E se il
primo aspetto riguarda la demitizzazione e fa prendere coscienza a qualche
ex o neocomunista come la versione stalinista del marxismo travisasse
Gramsci e servisse non a creare l’uomo nuovo ma a coprire idee e realtà
meschine, l’aspetto ecumenico mostra invece l’urgenza di superare la
contrapposizione eresia/ortodossia: per attivare un confronto dialettico
tra posizioni alternative ma praticabili e, soprattutto, non integriste.
Né l’autrice è tanto ingenua da non constatare il
"vuoto d’impegno" che la fine del socialcomunismo ha lasciato
in eredità alle socialdemocrazie riformiste, imbrigliate dal
postcapitalismo e dal connivente "silenzio degli intellettuali"
su Kosovo, Cecenia e così via. Né occorre fare gli indovini per sapere
cosa direbbe oggi sulla guerra in Afghanistan e oltre: lo si trova nell’intervista
che qui pubblichiamo! Decisamente un triste "sfascio reale", nel
quale tuttavia l’autrice continua a battersi per un "meglio
ideale", al limite dell’utopia. La quale utopia, per lei, ha un
nome: Giovanni Paolo II, del cui pensiero e opera la Macciocchi ha colto
due novità principali, fissate nel libro Di là dalle porte di bronzo e
ora riprese alle pp. 724ss dell’edizione Bompiani. Anzitutto, il suo
concepire l’Europa unita dall’Atlantico agli Urali, in forza delle sue
antiche e vive, nonostante tutto, radici cristiane. Sicché, come il Papa
stesso disse alla Macciocchi nei tre loro incontri, era assurda la
frattura voluta a Yalta.
La seconda
novità, che ispirò alla Macciocchi il volume Le
donne secondo Wojtyla, è la fiducia del Papa nel "genio della
donna", anche se il trarne le debite conseguenze sia molto in
ritardo. Alla pari di Eleonora Fonseca Pimentel e di Luisa Sanfelice,
eroine della Rivoluzione partenopea (1799), di cui l’autrice ha scritto
le biografie (e riprende alle pp. 811ss dell’edizione Bompiani), pure la
Macciocchi sa di combattere una battaglia perdente, «perché la donna che
non si vende ai potenti di turno ma crede nell’ideale e grida forte la
sua verità, sempre e ovunque, è un’eretica».
p.v.
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