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I giovani sono attirati dalle discoteche e dalla
Formula Uno. E la mattina di Capodanno non se ne presenta nemmeno uno
per servire messa. E anche se Gesù ha detto: «Dove sarete due o più
di due riuniti nel mio nome io sarò con voi», a me la domanda è
venuta spontanea: perché tanti banchi rimangono vuoti alla messa
festiva?
C aro
Pievano, mi spiace di averla involontariamente
ferita, con la domanda che le ho fatto l’altra mattina, nel suo
silenzioso ufficio parrocchiale. Ho capito di aver toccato un nervo
scoperto quando lei mi ha dato la risposta il giorno dopo, nell’omelia
della domenica: «Mi è stato chiesto perché, da qualche tempo, tanti
banchi rimangono vuoti, alla messa festiva...». E la sua voce, benché
lei cercasse di dominarla, tradiva – come poteva non essere? – un
turbamento personale, prima che un’amarezza oggettiva.
Veramente io non avevo usato l’espressione
"banchi vuoti" e, a essere giusti, non l’ha usata neanche lei,
perché sarebbe stata impropria. Qualche fedele, qua e là, c’è
dappertutto, anche verso il fondo; quando lei deve dare la comunione la
fila si allunga, per l’intera chiesa. Ma non è più quell’assemblea
affollata, calorosa, che riempiva tutti i posti disponibili, fino a pochi
anni fa. I suoi vecchi parrocchiani man mano scompaiono e sono sempre meno
i giovani che vengono a rimpiazzarli.
Lei è con noi da tanti anni, Pievano, non può non aver
fatto confronti. Quando esce dalla sacrestia per andare all’altare, noto
il suo sguardo che corre giù per la navata, sembra interrogare un gregge
progressivamente più assottigliato, reprimendo fra le labbra la domanda
che Gesù aveva fatto un giorno ai suoi apostoli: «Volete andarvene anche
voi?». Lei sa, a suo conforto, che ognuno dei presenti le darebbe la
stessa risposta di Pietro, ricordata nel vangelo di Giovanni: «Signore,
da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna». Ma sa che la maggior parte
degli altri, quelli rimasti fuori dalla porta, troverebbero le sue parole
troppo dure, come i discepoli che avevano abbandonato il maestro dopo il
discorso nella sinagoga di Cafarnao: perché la vita eterna interessa
sempre meno chi ha imparato a godere i beni del mondo qui, subito, senza
sollevare più il capo verso il cielo.
Quando lei venne nel nostro paese, quasi 50 anni fa –
ricorda? – dovette salire la rampa che saliva alla vecchia chiesa sulla
collina, consacrata nel 1793. Che anno quello, mentre appena al di là
delle Alpi infuriava la rivoluzione che sarebbe arrivata presto anche nel
vecchio Piemonte. Ma se in Francia le chiese si chiudevano, qui si
aprivano, i fedeli rispondevano tutti. Il vento giacobino di fine
Settecento e l’anticlericalismo ottocentesco soffiavano nella valle,
senza toccare la nostra gente di borgata, che veniva giù per i sentieri
della montagna, a cercare un pane non materiale fra quelle mura. Si
inchinavano tutti al suono del ciuchin manovrato da stuoli di
chierichetti per l’elevazione, si giravano indietro verso la cantoria,
quando l’antico organo barocco intonava le note del Credo in unum
Deum perché tutti potessero proseguire, in coro, con il loro Patrem
omnipotentem.

(foto Reuters).
Lei arrivò su e si rese subito conto che quella chiesa,
a noi così cara, dove eravamo stati battezzati, non rispondeva più ai
bisogni della popolazione. Era diventata insieme piccola e lontana, per il
paese cresciuto di abitanti e disceso man mano a valle, con le nuove case
che cercavano le più facili vie della pianura. Volle una nuova chiesa e
la costruì nel centro dell’abitato, a cento metri dalla piazza, perché
fosse grande e vicina. Ricordiamo tutti la sua gioia, che era anche la
nostra gioia, quando lei poté inaugurarla, a metà degli anni ’60, con
l’altare in posizione centrale, visibile da qualunque punto dell’unica
vasta navata, perché nessuno fra i nostri compaesani si sentisse escluso
dalla preghiera comune. Non poteva pensare che, a distanza di trent’anni,
quell’ambiente avrebbe cominciato a rivelarsi troppo grande.
Quando lei fece il suo ingresso in paese era l’ottobre
del 1954: la guerra – che nella nostra valle aveva fatto tante vittime
– ci era ancora vicina, con le sue sofferenze e le sue memorie di
sangue; il boom economico lontano, la parola consumismo non era ancora
entrata nel nostro vocabolario, perché nessuno avrebbe avuto ragioni per
usarla. Nessuno parlava di vacanze al mare, di motorizzazione di massa.
Andavamo in bicicletta, la vacanza più ambita era la salita in montagna,
con lo zaino di venti chili sulle spalle, per arrivare alla cima del
Rocciamelone, 3.538 metri, sempre scarpinando: dove il massimo comfort era
il piccolo rifugio con un tavolaccio di legno dove passare la notte al
coperto.
Quella sera di domenica, lassù sulla collina, lei
trovò una comunità viva, forte, dove primeggiavano, per numero, i
giovani. Non erano anni facili per nessuno, e nemmeno per la Chiesa. In
Italia c’era un grande partito comunista, che raccoglieva un terzo dei
voti, e non spingeva certo i suoi seguaci a frequentare la messa; legato a
un Paese più grande ancora dove la fede religiosa era apertamente
combattuta. Sembrava che il problema centrale, anche per i cattolici
italiani, fosse solo quello; e fermentava, nelle sacrestie come nelle
processioni, un vago spirito di crociata, al grido di «Noi vogliam Dio!»
che riecheggiava da vicino quel «Dio lo vuole!» del Medioevo. Bisognava
evitare, in tutti i modi, che i cosacchi venissero ad abbeverare i loro
cavalli in piazza San Pietro. Il problema non era lì, i cosacchi non
sarebbero mai venuti con i loro cavalli. Quando tanti anni dopo
arrivarono, in austere berline, vennero a baciare la mano al Papa. Il
comunismo era riuscito a chiudere tante chiese dove era al potere solo
perché in quei Paesi se ne ricostruissero tante più numerose dopo la sua
caduta.
Intanto la televisione...
Nessuno aveva fatto caso che proprio in quel 1954 si era
inaugurata in Italia – e proprio con un messaggio del Papa – la
televisione. Ottimo strumento, come Pio XII aveva capito, che egli stesso
e i suoi successori non persero occasione per usare. E dietro la
televisione, pochi mesi dopo, la Seicento Fiat, altro strumento ottimo,
per la vita delle famiglie dei lavoratori, che avrebbe dato origine, per
la prima volta nel nostro Paese, alla mobilità di tutti i cittadini,
senza distinzione fra ricchi e poveri. Di ottimo strumento in ottimo
strumento avrebbero fatto seguito l’elevazione del tenore di vita, lo
sviluppo della rete autostradale, l’arrivo del computer, le vacanze per
tutti, prima in Italia e poi all’estero. E Dio, dove lo avevamo
lasciato? Già, Dio. Nessuno cantava più «Noi vogliam Dio ch’è nostro
re», nelle processioni che si cercava sempre più di ridurre, perché
sottraevano spazio alle auto sulle nostre strade. Si poteva invocare in
chiesa, naturalmente, magari con canti meno trionfalistici, più adatti a
una religiosità matura. Adesso nessuno cercava più di scoraggiare la
frequentazione della messa, i nostri bravi sindaci laici, o magari ex
comunisti, non mancavano di presentarsi in fascia tricolore alle feste
patronali, con tutta la giunta. Così almeno i primi banchi erano
sicuramente occupati. E gli altri? Sempre meno. Gli altri erano fuori a
correre in motocicletta, al rally, alla ricerca di nuove discoteche sulla
riviera romagnola... O magari anche soltanto dietro l’angolo, al bar,
per parlare della vittoria di Schumacher in qualche circuito in Malesia o
in Patagonia. Come si può pensare che cerchino parole di vita eterna,
quei poveri ragazzi, quando gli hanno imbottito il cervello di Formula
Uno?
Così lei, Pievano, esce dalla sacrestia, si guarda
intorno e sente lo sconforto. Una mattina di Capodanno si è accorto che
alla messa delle undici non si erano presentati nemmeno i chierichetti,
ancora insonnoliti dopo la festa notturna. Certo, poteva essere
spiacevole. Ma perché la tristezza? L’evangelista non ci dice che Gesù
fosse triste dopo la fuga di tanti discepoli, a Cafarnao. Sapeva che la
fede non si conta con i numeri, a lui bastavano quei dodici, per compiere
la sua missione. Come lo sapeva Pietro, che aveva parlato a nome degli
altri; perché le parole di vita eterna potevano venire solo dal maestro,
e loro non potevano farne a meno. Potrebbero esserci chiese anche più
vuote, nel nostro futuro. Ma Gesù ha detto che «dove sarete due o più
di due riuniti nel mio nome io sarò con voi». E se crediamo al suo
annuncio, abbiamo il dovere di credere anche a questa parola.
Giorgio Calcagno
Giorgio Calcagno è
nato ad Almese, in Valsusa, nel 1929.
Si è formato a Genova e
vive a Torino, dove svolge la professione di giornalista.
Tra le
sue opere di narrativa segnaliamo: Il Vangelo secondo gli altri
(Gribaudi, 1969, ora San Paolo); Il settimo giorno (Rusconi,
1981); Il gioco del prigioniero (Rizzoli, 1990, superpremio
Grinzane Cavour); Notizie dal diluvio (Rizzoli, 1992); Dodici
lei (Aragno, 2001, finalista al premio Campiello). Ha scritto
inoltre epigrammi e due libri di poesia: Visita allo zoo (Guanda
1980, premio Biella) e La tramontana di Ravecca (San Marco
dei Giustiniani, 1990). In collaborazione con Gabriella Poli ha
pubblicato: Echi di una voce perduta. Incontri, interviste e
conversazioni con Primo Levi (Mursia, 1992).
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