Il tema della paternità dopo un divorzio è affrontato dal popolare giornalista
televisivo che ha raccontato la propria vicenda personale in un romanzo
autobiografico, ponendo una più ampia questione generale.
Il tema è di scottante attualità. Parliamo
della questione dei "padri
separati", il cui numero ammonta
oggi in Italia a 4 milioni e mezzo.
Quasi sempre, cioè 9 volte su 10, i figli
vengono affidati alla madre. L'ultimo
film di Carlo Verdone (nel doppio
ruolo di regista e attore), Posti in
piedi in paradiso, racconta le tragicomiche
avventure
di tre papà ridotti
sul lastrico
non solo dalla
crisi economica,
ma soprattutto
dalle ex mogli alle
quali devono
versare onerosi
alimenti.

Timperi con il maresciallo Adornato, che ha effettuato uno sciopero della fame per vedere la figlia. (foto WWW.ADIANTUM.IT).
Il tema della
paternità dopo
un divorzio è affrontato
pure
dal popolare
giornalista televisivo Tiberio Timperi
(attualmente conduttore su Rai Uno
del programma Unomattina in famiglia),
che ha scritto per Longanesi un
romanzo autobiografico intitolato
Nei tuoi occhi di bambino (pp. 168,
H11,60). Autobiografico, dicevamo.
Anche se l'autore non vuole parlare
tanto di sé e della propria vicenda personale
(anche per comprensibili ragioni
di privacy volte a tutelare suo figlio,
che oggi ha sette anni), quanto
della più ampia questione generale.

Roma, 5.10.2011: manifestazione del Movimento femminile per la parità genitoriale (foto WWW.VENTIMIGLIA.BIZ)
Timperi, come mai ha deciso di
scrivere questo libro?
«Ho cercato di partire dal mio dolore,
di addomesticarlo, per scrivere
un romanzo-verità. Mentre lo
scrivevo, mentre provavo a raccontare
la mia storia, altre storie sono
venute a me, anche per il mio lavoro
di giornalista. Storie dure, dolorose,
storie di padri che vorrebbero
giocare con i propri figli, mentre viene
loro impedito di farlo. Padri a
metà. Padri che, dopo il fallimento
dei loro matrimoni, sono costretti a
contare le ore e ad aggrapparsi al ricordo
di un sorriso per sopravvivere
nell'attesa di poter vedere i propri
figli. Storie di percorsi familiari
che si muovono fra mille difficoltà e
sentimenti contrastanti. Storie fatte
di amarezza, solitudine, rimorsi,
pregiudizi, beghe legali, ma anche
di piccole conquiste quotidiane e rari
momenti di gioia. Storie di padri
alla ricerca di un equilibrio fragile e
prezioso, da raggiungere e difendere
giorno dopo giorno».
Tra queste storie c'è anche la
sua personale?
«Sì, anche se poi nello scrivere il
romanzo ho fatto una sorta di sintesi
delle diverse vicende come la
mia, e sono tante, con le quali sono
venuto a contatto».
Che cosa ha scoperto interessandosi
a questo tema?
«Ho rivisto profondamente alcuni
stereotipi propri della nostra cultura.
In genere siamo portati a pensare che
a soffrire emotivamente siano soprattutto
le donne. Invece ho incontrato
molti uomini che soffrono, che piangono,
che magari addirittura si disperano
per la mancanza dei loro figli».
Come si può ovviare a questo problema?
Se è comprensibile che spesso
nelle cause di separazione i figli
vengano affidati alla madre, come si
può armonizzare questa decisione
con il diritto dei padri a incontrarli, a
trascorrere del tempo con loro, e con
il diritto degli stessi figli ad avere accanto
a sé la figura del genitore?
«Perché lei dice che è "comprensibile"
che i magistrati tendano ad
affidare i figli alla madre? Vede, anche
lei è vittima di questo pregiudizio
"mammocentrico", che è un pregiudizio
tutto italiano. La legge in
realtà dice un'altra cosa: che la prole
va affidata al genitore più equilibrato
e disponibile, quello che possa
garantire ai figli le migliori condizioni
di crescita e di sviluppo, sul
piano materiale, culturale e psicologico.
Basterebbe che la legge fosse
applicata, invece in Italia quasi
sempre a fare le spese
della mancanza dei figli
sono i padri».
Lei afferma che
questo è un problema
italiano...
«Sì, perché altrove,
penso ad esempio alla
Spagna, le cose non vanno
così: i giudici valutano
le cose con maggiore
serenità, senza preferenze,
consce o inconsce, nei confronti
della madre o del padre. Ma non c'è
ragione perché non debba essere così
anche in Italia. L'articolo 3 della
nostra Costituzione vieta chiaramente
ogni discriminazione tra le
persone sulla base di distinzioni di
sesso».
Da dove deriva questo pregiudizio
negativo rispetto ai padri e a
favore delle madri?
«Da una cultura molto profonda
e radicata, alla quale si sono aggiunte
le trasformazioni della società italiana
avvenute negli ultimi cinquant'anni.
Il movimento femminista
ha ottenuto importanti conquiste,
ma a mio avviso in molti casi ha
determinato anche una iper-tutela
delle donne a svantaggio della controparte
maschile. Si è passati dalla
discriminazione a un'eccessiva protezione.
Non vorrei che questa affermazione
suonasse maschilista, lungi
da me ogni presa di posizione
ideologica, ma è qualcosa che ho
avuto modo di constatare nella concretezza
della vita quotidiana».
Questo atteggiamento diffuso
di cui lei parla come influisce praticamente
sulle cause di separazione?
«I giudici sono iper-protettivi
nei confronti delle donne. Affidare
un bambino 23 giorni alla madre e
8 al padre significa discriminare
quest'ultimo. Purtroppo nelle relazioni
genitori-figli quantità è sinonimo
di qualità».
Che cosa si potrebbe fare?
«Penso che bisognerebbe abbreviare
i tempi della separazione e introdurre
dei contratti prematrimoniali. So
che la Chiesa cattolica su questo punto
nutre delle perplessità, ma invito a
riflettere su che cosa accade oggi. In
Romania ci si divide in 3 mesi, in Italia
ci vogliono in media
3-4 anni. Chi ci guadagna
è soprattutto un esercito
di avvocati, di psicologi,
di assistenti sociali.
Nel frattempo c'è gente
che vive sulla pelle dei nostri
figli. Ma se non vogliamo
introdurre il cosiddetto
"divorzio breve",
puntiamo almeno all'affidamento
condiviso».
Che posizioni ha trovato su
questo argomento all'interno della
Chiesa?
«Al di là di una certa rigidità ufficiale,
in molti tra gli operatori pastorali
a contatto diretto con le persone
e con le loro sofferenze quotidiane,
sacerdoti, parroci, suore, sono preoccupati
del fatto che le persone tendono
a sposarsi sempre meno. Ne ho
parlato di recente proprio con una
suora paolina, Cristina Beffa. Ho
avuto un'educazione cattolica, che
mi ha trasmesso un forte senso morale,
ma non sono praticante. Quindi
non intendo pormi come uno che voglia
impartire lezioni alla Chiesa.
«Però penso che sarebbe giusto
offrire un'altra possibilità a chi sbaglia,
cioè consentire più facilmente
che dopo l'eventuale fallimento
del primo matrimonio le persone
possano sperare in una nuova relazione.
Ciò le aiuterebbe a uscire
dalla solitudine e probabilmente
anche a vivere meglio il rapporto
con i propri figli».
Roberto Carnero
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