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Filosofo e scrittore, il frate domenicano elabora una nuova teologia giudicata
eretica dalla Chiesa. Denunciato all'Inquisizione, viene condannato e bruciato vivo
a Campo de' Fiori, in Roma. Condanna che obbedisce all'implacabilità dell'epoca.

Roma, Piazza Campo
de' Fiori, dove il
filosofo venne arso
vivo, con la statua di
Ettore Ferrari, 1888 (foto CENSI).
Una buona parte dei documenti
dell'Archivio segreto vaticano,
riguardanti in particolare
quelli dei processi dell'Inquisizione,
subirono la tragica sorte di essere
prelevati per ordine di Napoleone
e trasportati a Parigi. Era il 1810.
Roma sotto tutela francese e il Papa
deportato in Francia.
Si voleva costituire,
razziando opere d'arte e documenti
per mezza Europa, un faraonico
"Museo della civiltà europea liberata
dalla rivoluzione".
Con la caduta di Napoleone non se
ne fece nulla. Molte delle preziose carte
vaticane finirono come carta da imballo:
droghieri e pescivendoli ci incartarono
per mesi le loro mercanzie.
Perirono così gli atti originali dei processi
di Galileo Galilei e di Giordano
Bruno. I resti del saccheggio, 37 casse,
furono riportati a Roma dal cardinale
Consalvi, su ordine di Pio VII.
Dopo una ricognizione avvenuta a
fine Ottocento, riguardo la vicenda
di Giordano Bruno si rinvenne un
prezioso sommario degli interrogatori,
delle idee e degli scritti del filosofo
e teologo nolano, compilato a Roma
(sulla base del precedente processo
veneziano) nell'estate del 1597: quattro
anni e mezzo dopo l'ingresso del
Bruno nelle carceri romane dell'Inquisizione.
Echi di documenti, accuse,
difese a oltranza, vibrazioni che
vengono dalle ombre di un'anima, e
dalle pieghe corrusche di un'epoca.
Basta immergersi nella lettura
(sono stati integralmente
ripubblicati dalla
Biblioteca apostolica vaticana
nel 1942, a cura di
Angelo Mercati) e ci appare
come una visione.
Èla gelida notte di Natale
del 1599 e in una cella,
a lume oscillante di
candela, il frate prigioniero
scrive un memoriale.
Racconta la sua vita, si
difende dalle accuse,
attacca, attende di
conoscere la
sua sorte:
assoluzione
se si
ravvede, condanna se persiste nelle sue
idee ritenute perniciose ed eretiche.

Giordano Bruno, ritratto del 1578 (foto WIKIPEDIA.ORG).
Il primo processo per eresia
Siamo senza dubbio di fronte a un
pensatore visionario, una figura non
priva di intuizioni profetiche, della
formulazione di una grandiosa visione
cosmogonica non priva di venature
magiche. Giordano Bruno
come specchio abbrunato
e al tempo stesso sfolgorante
di un secolo, il
Seicento, fucina di arti
e di scienze, di scoperte
astronomiche e azzardi
della ragione.
Giordano Bruno nasce
a Nola nel 1548 da famiglia
modesta. Il suo talento
lo indirizza verso gli
studi ecclesiastici. Presto entra
nell'ordine domenicano
e si fa strada come insegnante
per il suo
acume e la dialettica.
Ma il
suo insegnamento
percorre
sentieri inusuali: intuizioni, azzardi,
sincretismi. Matura le prime
opere di filosofia cosmogonica De
minimo, De monade, De immenso.
Viene destituito dall'insegnamento,
subisce a Napoli il primo processo
per eresia e scampa alle accuse.
Da quel momento inizia una vita
errabonda.
Viaggia, si sposta sempre,
inquieto, sempre in polemica e oppugnazione:
a Padova, a Torino, poi a
Ginevra dove si avvicina ai calvinisti,
ma viene dagli stessi perseguitato e
abiura. Si reca a Parigi, entra in contrasto
coi professori della Sorbona
(anche per il suo modo tutto moderno
d'insegnare in lingua volgare).
Sarà
poi a Tolosa, a Francoforte, a Praga,
infine in Inghilterra (vive a Londra
dal 1583 al 1585, dove alla corte
di Elisabetta sarà spia per conto
dell'ambasciatore di Francia).
Lascia
l'Inghilterra e si reca a Magonza,
Francoforte, Praga, ammirato e contrastato,
sempre posseduto dal suo demone
speculativo, dal furore di una
fiamma anti ortodossa, da un pungolo
irridente e superbo. Infine la sua venuta
a Venezia, che gli sarà fatale.
Per l'inquietudine delle sue idee
teologiche, espresse in modo anti-sistematico
e iperbolico, per la sconvolgente
filosofia sensista, anzi positivista
ante litteram, Giordano Bruno
era risultato pericoloso agli occhi degli
stessi protestanti. Quello che gli difettava
era certamente l'equilibrio,
spinto com'era, anzi ustionato,
dall'incandescenza di un pensiero onnivoro.
La sua epoca gli stava stretta.
Ma ogni epoca gli sarebbe risultata
stretta. Nei suoi dialoghi filosofici,
molti dei quali scritti nel periodo inglese,
vi è una razionalità che si spinge
fino alle soglie dell'allucinazione:
lo Spaccio della bestia trionfante e la
Cena de le ceneri, poi gli Eroici furori
(con una tesi che oggi si direbbe bergsoniana,
sulla forza dell'anelito che
spinge l'uomo verso l'infinito).
Vi sono naturalmente anche opere
teologiche come De la causa, principio
et uno e il De l'infinito, universo e
mondi, dove l'universo viene rappresentato
sotto l'aspetto di totalità e di
eterno mentre l'uomo, spettatore e
partecipe, sta di fronte a questo immenso
ritmo universale, si scioglie
fuori di sé stesso e si rituffa nella pienezza
dell'Essere.
Enunciazioni in
odore di panteismo che dovevano mettere
in allarme l'occhiuta vigilanza di
qualsiasi custode dell'ortodossia.
Nel 1592 inizia dunque per Giordano
Bruno il periodo veneziano,
ospite del patrizio Giovanni Mocenigo,
che vuole essere istruito nelle
scienze matematiche e nelle arti magiche,
come in quella tanto propagandata
"arte della memoria".
La condanna definitiva
Un sodalizio che si guasterà presto.
Il Mocenigo, forse deluso nelle
aspettative di apprendista di magia,
lo denuncia all'Inquisizione.
La nobiltà
veneta vi appare come baluardo
dell'ortodossia, giocando in questo
nevrosi e bigottismo, soprattutto
paura. La paura, è questa che immancabilmente
nasce dal contatto
con il Bruno.
Dovunque andrà, parlerà, insegnerà,
scriverà: ecco originarsi il disagio,
ecco l'ansia di fronte alla possibilità
di oltrepassare il limite, di essere
coinvolti e bruciarsi. L'infinito del
pensiero vagabondo, della diversa visione
teologica generano allarme e rifiuto,
la necessità di salvarsi dall'untore.
Nel maggio 1592 il nolano subisce
un processo da parte dell'Inquisizione
veneziana, viene condannato e
abiura il 3 giugno: «Tutti li errori che
io ho commessi [...] et tutte le heresie
che io ho tenute, hora io le detesto
et abhorrisco».
Tutto quello che volevano
sentirgli dire, il Bruno,
fiaccato dalla prigionia,
lo dice. Venezia cercherà
invano di trattenerlo,
non tanto per salvarlo
quanto per riaffermare
la propria indipendenza
giurisdizionale da Roma.
E sarà a Roma, nelle
mani della ben più severa
Inquisizione romana che il Bruno
verrà consegnato agli inizi del 1593.
Sette anni di detenzione, interrogatori,
diatribe, promesse e ritrattazioni,
fino alla condanna definitiva,
sotto Clemente VIII. «Pronuntiamo,
sententiamo et dichiaramo te, frà
Giordano Bruno, essere heretico impenitente,
pertinace et ostinato, et
perciò essere incorso in tutte le censure
ecclesiastiche et pene dalli Sacri
Canoni, leggi et constitutioni imposte.
[...] Di più condannamo, riprobamo
et prohibemo tutti gli sopradetti
tuoi libri et scritti [...] che
siano publicamente guasti et abbrugiati
nella piazza di San Pietro».
Tale è la terribile dichiarazione che
si legge nel documento superstite. È
l'8 febbraio del 1600. Il 17 febbraio, a
cinquantadue anni, l'eretico viene arso
vivo nella piazza di Campo de' Fiori,
luogo del mercato di frutta e verdura,
di fronte a una grande folla. E pare
che in mezzo a quella folla assistette
all'esecuzione lo stesso Caravaggio.
Un giorno drammatico, «un avvenimento
doloroso», ha detto qualche
tempo fa il cardinal Sodano,
«un triste episodio della storia cristiana
moderna» (una risposta pacata
a certe esagitate commemorazioni
laiciste inscenate nel quarto centenario
della morte a Roma).
Quello che aveva soprattutto spaventato
gli inquisitori, determinandone
la condanna, era la magmatica
commistione, nelle dottrine del Bruno,
dell'elemento teologico con quello
filosofico panteistico, matematico,
cosmologico ed esoterico.
Un disagio, la consapevolezza di
star difendendo l'ortodossia, ma anche
un equivoco colpevole che si ripeterà
trent'anni dopo con il processo a
Galileo. La Chiesa per necessaria autodifesa
non fu profetica e cedette
all'intolleranza dell'epoca.
Fra le idee teologiche ereticali del
nolano impugnate dagli inquisitori figurano
la negazione della presenza
reale di Cristo nell'eucaristia
e della verginità di
Maria. Inoltre il Bruno
sostiene che Dio è Uno e
non Trino, e che questo
Dio Uno e l'universo sono
la stessa cosa, che la
Sacra Scrittura è una
fantasia, che il demonio
alla fine dei tempi si salverà
e, soprattutto, che
Cristo non è un essere divino
ma un semplice uomo e per di
più impostore, riprendendo con questo
l'eresia ariana.
Sono affermazioni
che a un orecchio religioso suonavano
come orribile blasfemia. E l'eretico
impenitente e reo confesso veniva
punito con la pena capitale.
In fondo, il dramma che fu la condanna
e l'esecuzione per mano del
braccio secolare di Giordano Bruno
obbedisce all'implacabilità dell'epoca.
Esso ci appare oggi, dall'esame
delle superstiti carte processuali, come
un vano e drammatico tentativo
da parte delle autorità ecclesiastiche
di risparmiare a sé stesse il peso
e le conseguenze della condanna di
uno spirito libero ma al tempo stesso
ereticamente esaltato.
Luca Desiato |