he
Paolo fosse e si sentisse ebreo, appare da diverse sue affermazioni, a
cominciare dalla dichiarazione che, secondo Atti 22,3, fece sui gradini
del tempio al momento dell’arresto: «Fratelli, io sono un giudeo, nato
a Tarso di Cilicia, ma cresciuto in questa città, formato alla scuola di
Gamaliele nelle più rigide norme della legge paterna, pieno di zelo per
Dio, come oggi siete tutti voi». E poco dopo, davanti al sinedrio: «Fratelli,
io sono un fariseo, figlio di farisei; io sono chiamato in giudizio a
motivo della speranza nella risurrezione dei morti» (Atti 23,6).
Da
queste due dichiarazioni emerge non soltanto la sua autocoscienza ebraica,
ma anche la sua adesione alla corrente farisaica (in cui, secondo alcuni
studiosi moderni, si era formato Gesù): Gamaliele il Vecchio era nipote
di Hillel, il grande maestro che, a differenza del contemporaneo Shammaj,
era noto per la sua dolcezza e moderazione.
La tradizione farisaica non era compatta e omogenea. Una
citazione talmudica distingue sette tipi di farisei: «Il fariseo shikmi
(che, come il biblico personaggio Sichem, si converte per
opportunismo); il fariseo niqpi (che cammina a piccoli passi per
ostentare umiltà); il fariseo kizai (che per non vedere le donne
cammina a testa bassa e quindi picchia contro i muri e si copre di
sangue); il fariseo pestello (che cammina curvo come il pestello
nel mortaio); il fariseo che grida sempre (qual è il mio dovere perché
io lo possa compiere?); il fariseo per amore e il fariseo per timore» (Talmud
babilonese, Sotah 22b).
Ma che cosa dice la Scrittura a proposito dei precetti? «Vedi,
io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male; poiché
io oggi ti comando di amare il Signore tuo Dio, di camminare per le sue
vie, di osservare i suoi comandi, le sue leggi e le sue norme perché tu
viva» (Dt 30,15-16). Ascoltando tali precetti – dopo la rivelazione
sinaitica – il popolo disse a Mosè: «Tutto ciò che il Signore ha
parlato, eseguiremo e ascolteremo» (Es 24,7). Dove si deve notare la
precedenza dell’"eseguire" sull’"ascoltare", della
prassi sulla riflessione.
Il rapporto di Paolo con la legge
Qual è la posizione di Paolo sui precetti? «Quelli che
si richiamano alle opere della legge, stanno sotto la maledizione [...] e
che nessuno possa giustificarsi davanti a Dio per la legge, risulta dal
fatto che il giusto vivrà in virtù della fede [...]. Cristo ci ha
salvati dalla maledizione della legge» (Gal 3,10-11.13). A questa e altre
numerose negazioni della legge, Paolo alterna valutazioni di altro senso
(per esempio in Rm 7,7.14-16). Tutto ciò deriva, a mio parere, da un’esperienza
giovanile turbata e forse traumatica dell’osservanza dei precetti, come
quella esemplificata nella citazione talmudica proposta sopra. Mi pare
evidente che nella sua giovanile presenza farisaica il rapporto di Paolo
con la legge non sia stato quello del "fariseo per amore".
La sua colpa (che ha avuto conseguenze gravissime nelle
interpretazioni cristiane dell’ebraismo) sta nell’aver generalizzato
ed esclusivizzato il modello del fariseo kizai, e nell’aver
ignorato una tradizione orale che insiste su quello che potremmo chiamare
il significato sacramentale del precetto: il precetto, come il sacramento,
non ha il suo significato nell’atto o nella materia prescritti, ma nella
"provenienza". Ossia: il precetto, come il sacramento, è un
memoriale, una memoria attiva ed efficace, della volontà di Dio. Quando
mi astengo, per esempio, da cibi proibiti, il vero senso del precetto è
che io mi ricordo di Dio. Mi sia consentito riprendere in proposito quanto
ho scritto nella mia Introduzione al giudaismo (Morcelliana 1999,
pp. 74 -75). La presenza,
l’incarnazione della volontà di Dio – potremmo dire di Dio in quanto
volontà – è la radice biblica della halakhà,
"norma". Come afferma E. Levinas, la halakhà è un
accesso all’intellettuale – direi alla conoscenza di Dio – a partire
dall’obbedienza.
Leggiamo uno dei precetti biblici più incompresi dai
non ebrei: «Parla ai figli di Israele e di’ loro che si facciano delle
frange agli angoli delle loro vesti, per tutte le loro generazioni, e
mettano alla frangia di ogni angolo un filo di porpora azzurra. E della
frangia avverrà che quando la guarderete vi ricorderete di tutti i
comandi del Signore, e li eseguirete, e non devierete dietro il vostro
cuore e dietro i vostri occhi, al seguito dei quali vi siete prostituiti»
(Nm 15,38-39). Se Paolo non avesse sofferto una situazione psicologica
disturbata come quella del fariseo kizai, avrebbe compreso che i
due versetti sono il cuore della Torà, perché contengono tre elementi
assolutamente fondamentali: un comando di Dio, un comando spoglio di senso
etico, e un collegamento del comando al ricordo. Potremmo aggiungere: al
ricordo di Dio come voce. Proprio perché il valore dei precetti sta nella
provenienza, si capisce quel detto midrashico secondo cui «non bisogna
soffermarsi a ponderare sul valore dei precetti».
Il grande rabbi Jochanan ben Zakkaj, contemporaneo di
Paolo, diceva: «Né il morto contamina né l’acqua purifica [che sono
due principi della Torà] ma è il decreto del Re dei re, come dice il
Santo benedetto sia: "Ho decretato i miei decreti e ho prescritto le
mie prescrizioni, né l’uomo può violare il mio decreto"» (Midrash
Rabbà a Numeri 19,8).
E due secoli dopo Rav – altro grande maestro della
tradizione orale – diceva a proposito delle regole di macellazione
rituale: «Forse importa al Santo, benedetto sia, che chi scanna l’animale
lo colpisca al collo o lo colpisca alla nuca? Così, i precetti non sono
stati dati se non allo scopo di purificare le creature» (Midrash
Rabbà 6,2). Questi precetti "punteggiano" l’esistenza
quotidiana, indipendentemente dall’eventuale formazione teologica del
singolo: potremmo dire perciò che in un certo senso sono un modo che Dio
ha di arrivare all’uomo comune. Ecco perché è stato affermato che Dio
sta nel precetto (e, aggiungiamo noi, non soltanto nella morale).
La posizione, o meglio l’alternanza di posizioni di
Paolo sui precetti (che, lo ripetiamo, è responsabile di gravissimi
fraintendimenti dell’ebraismo da parte dei cristiani) è tuttavia,
paradossalmente, un fattore intra-giudaico. Infatti il giudaismo si è
sempre nutrito di discussioni anche violente, di divergenze profonde, come
quelle famose, nel primo secolo, tra la scuola di Hillel e quella di
Shammaj. Se i cristiani leggessero più criticamente le discordanti
asserzioni di Paolo sui precetti, forse anch’essi, come i discepoli dei
due maestri, sentirebbero una voce dal cielo che afferma: «Queste e
quelle sono parole del Dio vivente». Ma ci vuole ancora pazienza e
libertà.

Interno della chiesa di Tarso,
Turchia (foto G. Giuliani).
La sua tensione messianica
Se l’ebraicità di Paolo emerge anche dalle sue
ossessioni, c’è un altro elemento ebraico del pensiero paolino, che lo
pone tra le più grandi – se non la più grande – personalità del
Nuovo Testamento. Mi riferisco alla sua tensione messianica, tipica del
medio giudaismo e radice perenne del cristianesimo. Essa trova il suo
culmine in un passo della lettera ai Romani che vorrei fosse riletto da
ogni ebreo e da ogni cristiano ogni giorno: «La creazione stessa attende
con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata
sottomessa alla caducità, non per suo volere, ma per volere di colui che
l’ha sottomessa, e nutre la speranza di essere liberata dalla
corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio.
Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino a oggi
nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo
le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a
figli, la redenzione del nostro corpo. Poiché nella speranza noi siamo
stati salvati» (Romani 8,19-24).
E non dimentichiamo che questa è anche la speranza
messianica di Dio.
Paolo De Benedetti