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La guerra all’Irak
ha mostrato come i rapporti tra Usa e Unione Europea, e tra gli Stati
membri della stessa Ue, si siano logorati. Eppure la globalizzazione ha
bisogno di una guida unitaria da parte delle grandi economie.
Il
primo frutto politico della guerra americana in Irak è maturato presto:
la frantumazione dell’Europa, almeno per quanto riguarda la prospettiva
di un rafforzamento a breve termine dell’Unione per un confronto non
ostile ma dignitoso tra le due rive dell’Atlantico. E che si tratti di
un risultato e non di un incidente della storia, lo dimostra un’ormai
lunga serie di atti di politica estera che disegnano un ritratto degli
Stati Uniti non molto amichevole nei confronti dell’Unione Europea:
dalla corsa all’ampliamento della Nato verso Est, realizzato con largo
anticipo sull’allargamento dell’Unione (2004) alle guerriglie
commerciali (acciaio, prodotti agricoli) organizzate dalla Casa Bianca,
liberista in casa d’altri e protezionista nel proprio cortile.
Difficile, dunque, che le divisioni del Vecchio Continente dispiacciano
all’amministrazione Bush: anche perché un’Unione davvero compatta, e
armata di quello straordinario strumento economico e politico chiamato
euro, diventerebbe automaticamente un contraltare (l’unico, vero) allo
strapotere degli Usa che, almeno in questa fase, di rivali non ne
vogliono. Amici o nemici che siano.
Questa è la realtà. Ma è anche giunta l’ora – per
quanto possa sembrare assurdo dirlo adesso con quello che succede in Irak
e altrove – di pensare il futuro d’Europa con la spinta di un maggiore
ottimismo. Usa ed Europa non possono affrontare il futuro da rivali,
questo è chiaro a tutti. E prima o poi dovranno ricostruire un sistema di
rapporti e relazioni funzionale alle grandi sfide che attendono entrambi.
Non si tratta, qui, solo di mettere d’accordo Chirac e
Blair, di convincere Germania e Francia a non coltivare ambizioni
nazionali eccessive nel consesso europeo, di far capire agli uomini di
Bush che arroganza e rozzezza mal funzionano con i Governi di Paesi che
hanno storia e orgoglio antichi. Si tratta, piuttosto, di riconoscere che
il governo del pianeta non è cosa per potenze ma per grandi e
intelligenti nazioni; e che di nazioni così grandi e intelligenti da
reggere da sole un simile peso non ce ne sono. Neanche gli Usa ce la
possono fare. E con gli Usa, per dimensione, tradizione e affinità
politica e culturale, ci può esser solo l’Europa. Un solo esempio: l’economia
degli Usa è la più grande al mondo e, pensano molti, quella di maggior
successo. Ma i cittadini di Austria, Belgio, Danimarca e Norvegia hanno lo
stesso reddito medio di quelli americani in economie altrettanto aperte ma
meno spietate, più serene e con meno disuguaglianze. Aquesto punta l’Unione
intera, ed è un obiettivo politico non meno che economico.
Europa e Stati Uniti possono pensare di affrontare
questioni enormi e urgenti solo se lavorano uniti. Un sondaggio svolto nel
2001 in 20 Paesi (tra cui anche nazioni emergenti come Brasile, India,
Cina, Nigeria) su un campione di 20 mila persone ha messo in evidenza che
il 40% degli intervistati chiedeva un maggiore controllo internazionale
delle violazioni dei diritti umani e il 30% considerava invece prioritaria
la difesa dell’ambiente. Dicono gli scienziati che sette economie (Usa,
Russia, Giappone, Ue, Cina, Brasile e India) sono responsabili del 70%
delle emissioni di gas a effetto serra. E gli Usa, che hanno solo il 4%
degli abitanti del pianeta, inquinano l’atmosfera per il 25% del totale.
Ma il pianeta è "anche" degli americani, che respirano come
tutti gli altri. Davvero la Casa Bianca crede di poter scappare in eterno
da obblighi e impegni, come il Trattato di Kyoto, che vanno a vantaggio
anche dei suoi connazionali?
È il governo della globalizzazione il vero problema.
Non più rinviabile, se persino una delle motivazioni dell’inutile e
sbagliata guerra americana in Irak è che il terrorismo internazionale
mette in pericolo la pace e la tranquillità dell’intero Occidente. Ma a
pericoli globali e collettivi servono risposte globali e collettive: con
le guerre dell’uno contro tutti non si va lontano.
Si calcola che gli effetti positivi della
globalizzazione, nel corso degli anni Novanta, hanno tolto dalla povertà
più di 120 milioni di persone, soprattutto in Asia. Ma c’è un folto
gruppo di Paesi (dall’Afghanistan al Congo), per un totale di più di
due miliardi di persone, che dalla globalizzazione sono stati penalizzati:
i loro redditi sono calati, il loro commercio estero è oggi inferiore a
20 anni fa.
Chi può credere che "bombe intelligenti" e
portaerei bastino, nel medio termine, a contenere una simile pressione?
Che così tante pance vuote possano esser fatte rientrare in eterno nella
formuletta dello "scontro di civiltà", come se avere fame da
musulmani fosse diverso che da cattolici o protestanti? Stati Uniti ed
Europa, abbiamo un solo problema: contenere quella spinta e incanalarla
verso lo sviluppo. Per l’uno e per l’altro scopo, devono lavorare
insieme. O consegnarsi, come forse qualcuno in America pensa, a una serie
senza fine di guerre chiamate "preventive" ma tutte
terribilmente in ritardo.
Fulvio Scaglione
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