 |
Musicista
elegante e raffinato, si batté per il recupero delle forme classiche
contro le mode del momento. I suoi lavori, solo apparentemente
"facili", e la colta sensibilità ne fanno un compositore
eclettico e singolare.
Sulla
figura di Poulenc si è accumulato nel tempo un gran numero di luoghi
comuni di cui andrebbe fatta pulizia. Come tutti i compositori
apparentemente facili, è in realtà difficile: non per un ascolto
distratto o una piacevole compagnia sonora, ma per un’autentica
comprensione. Non va nascosta una sua complicità nel seminare l’idea
dell’irridente indifferenza e del gioco superficiale, ma la maggior
parte degli atteggiamenti più frivoli e salottieri risalgono alla prima
parte della sua vita, e non è corretto giudicare con tale metro la
seconda.
Da sempre bersaglio di ogni avanguardia per non aver
aderito ad alcuno spirito di ricerca (tranne, e sempre col sospetto del
gioco, nella prima gioventù), Poulenc non è totalmente ascrivibile
nemmeno al neoclassicismo, in cui lo collocano l’amicizia con Cocteau e
Stravinski e il Gruppo dei Sei di cui faceva parte, autori in realtà
diversissimi che hanno preso nel tempo strade praticamente opposte. La sua
omosessualità, una manna per gli autori di biografie pruriginose, è
stata vissuta meno superficialmente di quanto potesse apparire, e comunque
in un difficile e problematico rapporto con i sentimenti religiosi che
negli ultimi anni di vita lo hanno posto fra gli autori delle migliori
pagine cattoliche del Novecento.
Una
nascita borghese, sul finire del secolo precedente, nel 1899. Una famiglia
benestante, una madre affettuosa e buona pianista che preferiva Mozart,
Scarlatti e Couperin a Beethoven e Brahms, con qualche incursione nella
"adorabile cattiva musica" da salotto, stando alle parole del
figlio, che già a due anni fingeva di improvvisare sul suo pianoforte
giocattolo. La figura paterna, un uomo d’affari, sembra assente dalla
vita quotidiana del piccolo Francis, mentre protagonista della sua
adolescenza sarà lo zio materno Marcel, detto zio Papoum, il tipico zio
scapolo con un debole per lo spettacolo e che poteva vantare una trascorsa
amicizia con Toulouse-Lautrec. Grazie alla madre e allo zio, l’incontro
con le avanguardie letterarie, pittoriche e musicali del primo Novecento
gli viene offerto nel modo più naturale possibile. Tanto che, anche
rintracciando le sue prime e precoci composizioni, si individua
immediatamente una familiarità col mondo dell’arte contemporanea. La
famiglia inoltre lo manda a lezioni di piano da un noto concertista,
Ricardo Viñes, divulgatore della musica nuova e particolarmente sensibile
ai problemi timbrici posti dalla letteratura impressionista (Debussy, e
poi Ravel). Viñes gli fa conoscere la musica di Granados, Albeniz, De
Falla, e gli presenta Satie e Georges Auric, futuro componente del Gruppo
dei Sei, cui si aggiungerà di lì a poco la conoscenza con Milhaud,
Arthur Honegger e Germaine Talleferre.
La presentazione a Ravel ebbe meno successo. Forse Ravel
era di cattivo umore quel giorno, fatto sta che interruppe il giovane
Francis che gli suonava qualcosa, e da allora non ebbero più particolari
rapporti fino alla prima di L’enfant et les sortilèges, nel
1925, che Poulenc ammirò moltissimo. Altrettanto male andò il primo
tentativo di entrare al Conservatorio, dal professor Paul Vidal. Gli
presentò una sua composizione, Rhapsodie nègre, frutto delle
varie esperienze e frequentazioni delle avanguardie. Vidal ne fu
scandalizzato. Il pezzo fu eseguito di lì a poco in pubblico, e gli
guadagnò l’apprezzamento di Diaghilev e di Stravinski, stupiti che
fosse l’opera di un quasi adolescente. Era l’anno 1917.
Dopo aver perso la madre nel 1915, Francis perde il
padre. È la guerra. Viene arruolato, ma non tutti i mali vengono per
nuocere: sotto le armi conosce l’estroso poeta Guillaume Apollinaire.
Nel 1918 scrive una Sonata per pianoforte a quattro mani, memore
della scrittura percussiva di Stravinski e della moda per l’art
nègre, ma anche pervasa di spirito francese. La Sonata gli
vale un nuovo ammiratore nel già noto e futuro grande direttore d’orchestra
Ernest Ansermet.
A meno di vent’anni, Poulenc è dunque un compositore
di talento riconosciuto: ciononostante mantenne per tutta la vita una
sorta di insicurezza che lo spingeva a sottomettere spesso i suoi lavori
al giudizio di altri. Il talento è confermato da una delle prime
composizioni, che benché scritta a vent’anni, possiamo quasi
considerare matura: Le bestiaire, liriche su testi di Apollinaire
per voce e pianoforte. Sia il poeta che il compositore giocano con l’apparente
semplicità del bestiario, privo però di gioia infantile e anzi venato di
una sottile malinconia. Ciò che più lascia stupiti è però il
linguaggio musicale: non ha nulla di accademico, né sul piano armonico,
né ritmico, né melodico, né del trattamento del testo. Che Poulenc sia
pienamente cosciente di avere dietro di sé una Sagra della primavera di
Stravinski o un Pierrot Lunaire di Schönberg, lo si avverte da una
serie di indizi più che dall’impressione di una lavoro di ricerca: il
tutto in una semplicità sconcertante, eppure apparente. Anche a leggerlo
sembrerebbe facilissimo da suonare, ma non è proprio così. Come ha
scritto Wilfrid Mellers, autore di uno dei libri più interessanti su
Poulenc, a proposito dei lavori di questo periodo, si ha quasi l’impressione
di trovarsi di fronte a una sensibilità post-moderna, che si accentuerà
con quel "viaggiare nel tempo" caratteristico del periodo
neoclassico. È anche l’inizio di una lunga serie di liriche per canto e
piano, oltre cento, uno sterminato catalogo tutto da riesplorare, in cui
continua a frequentare la poesia francese, da Apollinaire a Jakob, da
Valéry, ad Aragon, e soprattutto Eluard.
Il periodo cosiddetto neoclassico
Abbiamo già avuto modo (v. Letture dicembre
2001, dossier Stravinski) di considerare la genericità dell’espressione
"neoclassico" applicata alla musica fra le due guerre. Certo, a
qualcosa serve, se si tratta di raggruppare autori molto diversi sotto
alcuni punti di convergenza. Più che uno sguardo al passato, lo sguardo
neoclassico è il rifiuto del passato immediato, del tardoromanticismo di
fine Ottocento e dei primi anni del Novecento. Il passato remoto, a cui
veniva, spesso erroneamente, attribuita un’assoluta oggettività e
assenza di sentimento, diventa un luogo a cui guardare e anche un baluardo
con cui difendersi da ceneri ancora troppo calde. Il successo dello
"stile" neoclassico è anche causa di molte delle riserve che la
critica ha avanzato successivamente. Per i compositori di minor talento
sarebbe diventato un troppo facile rifugio in un’accademia fatta di
vezzi e movenze settecentesche. Ma per i compositori degni di questo nome
non è quasi mai stato così, senza dimenticare che all’epoca, in
assenza di dischi e altri mezzi di diffusione, molta musica del Settecento
era tutta da scoprire, e suonava in qualche modo "nuova" agli
ascoltatori, non meno di quanto suonino nuovi oggi gli arcaismi
medievaleggianti di certi compositori recenti (v. Letture maggio
2000, dossier Arvo Pärt).
I rapporti di Poulenc con la tendenza del momento sono,
come al solito, estremamente personali. Non ha il radicalismo di Pulcinella
o diOedipus Rex di Stravinski, non ha la pomposa riscoperta del
contrappunto all’apparenza severo di Hindemith. Ha piuttosto il sapore
di un aggiornamento della biblioteca, di un ampliamento di orizzonti, per
un compositore cresciuto e nutrito nel presente. Ne è un ottimo esempio
il Trio per oboe, fagotto e pianoforte del 1926. Se l’inizio può
definirsi lulliano, e il movimento finale cita direttamente Gluck, dopo l’introduzione
assistiamo a un incrocio fra Offenbach e lo stile rococò, possibile solo
nel clima di disincanto parigino après-guerre. Le spericolate
ibridazioni non si limitano all’antico e al moderno, ma anche agli stili
"alti" e "bassi" della musica. La musica
"volgare" assume per Poulenc un valore di riscoperta e di
riappropriazione, simile all’atteggiamento che Stravinski aveva per il
passato. Tanto sono presenti gli echi della musica di strada o di quella
che oggi definiremmo "leggera", che possiamo perfino concederci
il piacere di immaginare che il giovane Poulenc l’abbia assimilata
durante le lunghe ore passate con lo zio Papoum. Nello stesso tempo si
deve a queste escursioni, da cui Poulenc trasse soprattutto suggestioni
melodiche, il luogo comune sulla facilità della sua musica: e sappiamo
che il termine "facilità" è spesso usato, quando si tratta di
Novecento, come sinonimo di superficialità, per non dire di banalità.
Certamente si tratta di musica perlopiù accessibile, ma non si può
definirla facile, perché impone una vasta cultura musicale per coglierne
anche le sfumature nascoste.
Uno dei primi titoli che vengono in mente parlando del
nostro è certamente il balletto Les Biches, frutto di quella
gigantesca macchina per capolavori che sono stati i Ballets Russes di
Diaghilev, che ne diedero la prima esecuzione all’opera di Montecarlo
nel 1924. Il titolo, come è noto, significa "le cerbiatte", e
sembra suggerire doppi sensi che la trama incoraggia solo se li si
vogliono vedere a tutti i costi. Non c’è una storia vera e propria, ma
alcune scene di corteggiamento in una festa elegante (uno dei doppi sensi
è anche "le mantenute"). La musica, pur attraversando stili
brillanti, accenni al rag time e a varie forme di danza, è
straordinariamente coerente e porta in ogni momento il marchio del suo
autore. Il pubblico dell’epoca, e soprattutto la società elegante delle
prime teatrali, si riconobbe talmente in questa totale assenza di
finalizzazione della trama (altro segno post-moderno?) da decretare un
assoluto successo. Sorprende non poco che in un mondo totalmente diverso
come il nostro il lavoro non sia per nulla invecchiato. Anzi, la sua
freschezza sembra crescere a ogni ascolto.
Al pianoforte
Altre due notevoli composizioni appartengono allo stesso
periodo: il Concert champêtre (1928) e Aubade (1929). Il
primo fu scritto per la sacerdotessa della rinascita del clavicembalo
Wanda Landowska (se uno dei meriti del neoclassicismo fu la riscoperta del
Settecento, in questo caso lo fu anche per uno dei suoi strumenti). Nei
suoi tre movimenti non è la natura incontaminata a prevalere, ma la
grazia suburbana di boschi e castelli intorno a Parigi, gli echi di
Couperin e di marcette militari. L’atteggiamento di Poulenc verso il
passato non è dissacrante, come talvolta in Stravinski, ma condiscendente
e amichevole, come se il passato riaffermasse la sua continuità in un
confortevole presente di civiltà e di gusto (francese, beninteso).
Quanto ad Aubade, scritta per pianoforte e
piccola orchestra, il tema mitologico di Diana cacciatrice porta ad
affondare le radici in movenze rococò, mai prive, però, dei consueti
scarti armonici e ritmici, con un costante senso di malinconia. Sull’argomento
del balletto, scritto dallo stesso Poulenc e che descrive la solitudine di
Diana in attesa dell’alba, si è molto speculato, volendo vedere nella
dea un’autoritratto dell’omosessualità dell’autore. Il dramma di
Diana, condannata alla castità, sembra essere lo stesso del compositore.
In quegli anni aveva infatti cercato senza successo di sposarsi e al tempo
stesso stava vivendo una travolgente storia d’amore con un uomo, nella
quale alternava momenti di esaltazione ad altri di depressione perché la
sentiva come "impura".
Le buone origini familiari non permisero a Poulenc di
vivere di rendita. Un’importante fonte di sussistenza fu l’attività
concertistica. Probabilmente il suo carattere schivo lo tenne lontano dall’attività
solistica e lo portò a esercitare la professione soprattutto come
accompagnatore di cantanti. Tuttavia ha lasciato un corpus considerevole
di lavori per pianoforte solo. Pochi hanno una particolare intensità
virtuosistica, anche se non bisogna mai dimenticare che la semplicità di
Poulenc è solo apparente e anche le pagine più scarne nascondono qualche
insidia tecnica. Come per le liriche per canto e piano, si tratta di un
repertorio da esplorare; alcune pagine hanno raggiunto una certa
notorietà, come la Pastourelle, del 1927, derivata da un pezzo a
più mani che si chiamava L’eventail de Jeanne; oLa Valse,
del 1919; o ancora il gradevole Embarquement pour Cythère, per due
pianoforti, un divertissement del 1951. Del 1925 è l’impegnativa
suite Napoli, in più movimenti, di particolare intensità
virtuosistica. In tutti questi lavori la scrittura stempera, o, se si
preferisce, fa più intimamente propri certi cliché del
neoclassicismo.
Fra gli anni ’30 e ’40 troviamo le Improvvisations,
laSuite française e, soprattutto, gli otto Notturni.
Scritti nel corso degli anni e poi raccolti, sono un interessante
laboratorio per la scrittura dell’ultimo Poulenc, similmente alle
raccolte di liriche su testo di Eluard che si prolungano fino ai primi
anni ’40. Qui Poulenc sembra smentire il luogo comune di autore
gradevole e salottiero, elegantemente à la page, ma privo di
impegno. Non è in realtà un cambiamento di rotta, ma una ricerca di
essenzialità, priva di citazioni e di facili disincanti.
Straordinariamente vivace è l’apertura del Concerto
per due pianoforti e orchestra, del 1932, un pezzo di bravura,
assolutamente brillante, dove Poulenc sa mirare dritto all’effetto e non
perde mai contatto con la forma, assai libera per la verità, ma proprio
per questo più difficile da difendere da sbavature e indugi eccessivi.
Alla maniera di Franck, c’è un collegamento tematico fra il finale del
primo e del terzo movimento, una sorta di sospensione del tempo, che può
ricordare l’ultimo Satie, di fatto uno scarto notevole anche sul piano
emotivo che poco ha a che fare con la leggerezza banale e fine a se
stessa. Dopo una simile sospensione del tempo, il gracile temino del
larghetto sembra venire da un altro mondo, lasciando una traccia
impercettibile, prima che attacchi il rutilante finale, sospeso, come
abbiamo visto, dal ritorno del primo movimento. Nello stesso anno, ma con
una gestazione che si protrae fino al 1939, è ilSestetto con
pianoforte e strumenti a fiato. È un pezzo di divertente e piacevole
intrattenimento, giocato sul ritmo e sul colore, spesso eseguito, anche
perché appartiene al non grande repertorio per strumenti a fiato.
La crisi spirituale
Nel 1936 l’amico Pierre-Octave Ferroud muore
orribilmente in un incidente d’auto. Poulenc ne è duramente colpito,
tanto che una sorta di crisi spirituale lo porta a effettuare un
pellegrinaggio a Rocamadur. Per via di questa esperienza mistica scrive le
Trois litanies à la Vierge Noire de Rocamadur. È un lavoro in cui
Poulenc sceglie per il coro e l’organo una scrittura modaleggiante senza
indugiare in stereotipi, vicina alla pronuncia delle parole, e conduce l’opera
attraverso un percorso drammatico che solo nella conclusione trova la sua
pace. Seguono una Messa nello spirito gagliardo del cattolicesimo
militante dell’epoca, priva stranamente di Credo, e soprattutto i
quattro Motets pour un temps de pénitence che, nella loro
scrittura per voci sole su tradizionali testi latini, rivelano un nuovo
Poulenc, che non si preoccupa più di nascondere umanità e sofferenza
dietro gli spiritosi calembours della buona società. È una
scrittura corale che unisce semplicità e potenza, chiarezza ed
espressione dolorosa, e che proprio per questo cominciamo solo ora a
capire, dopo anni di luoghi comuni della critica che volevano sempre una
rigorosa coincidenza fra profondità di espressione e durezza e astrusità
di scrittura.
Ancor meglio rappresenta il nuovo Poulenc un lavoro
profano, su testo di Eluard, legato alla Resistenza, destinato a celebrare
la Liberazione: Figure umaine del ’43-44, per doppio coro. Una
scrittura estremamente sofisticata e difficile, e insieme un’espressione
diretta che colpì fin dalla prima esecuzione. La scrittura a due cori ha
in sé qualcosa di teatrale, che trova le sue origini nel Rinascimento, ma
Poulenc concede poco sia a soluzioni di rifacimento stilistico o
retoriche, quali ad esempio il testo finale avrebbe potuto dettare: «je
suis né pour te connaître, pour te nommer, LIBERTÉ». E a proposito
della collaborazione con Paul Eluard, dobbiamo citare qui almeno uno dei
suoi importanti cicli di liriche, Tel jour telle nuit, del 1937,
altro lavoro del "nuovo" Poulenc.
Capita spesso anche ai compositori più grandi di fare
un passo indietro dopo averne fatti due in avanti. All’intensità e alla
linearità dei lavori "impegnati" di cui abbiamo parlato,
seguono: un Concerto per organo, archi e timpani (1939),
parzialmente di ispirazione religiosa, ma con ritorni neoclassici ormai
datati (il che non impedisce, come sempre, un piacevole ascolto); un
balletto, iniziato in tempo di guerra, come Les animaux modèles (1942),
basato sulle favole di La Fontaine, che meriterebbe forse una riproposta
coreografica; e infine un’opera buffa, Les mamelles de Tirésias,
del 1947, tratto da un lavoro di Apollinaire. Se quest’ultimo lavoro ha
avuto successo, è soprattutto grazie a una complessa trama che adombra i
temi della sessualità e dei generi con una certa verve comica, la
cui attualità Poulenc ha voluto sottolineare portando l’azione in tempi
e luoghi contemporanei rispetto all’esotico originale di Apollinaire:
guarda caso a Montecarlo, quasi un’evocazione del tempo spensierato di Les
Biches. Il lavoro è condotto con grande abilità, ma forse ha un che
di invecchiato nello spirito e risente del malinconico vezzo dell’autocitazione.
Anche Poulenc aveva qualche insicurezza al riguardo, tanto da proclamare
che era il lavoro a lui più caro, affermando curiosamente: «il peggio di
me è forse il meglio di me». Fu comunque il suo primo vero lavoro
teatrale, una sorta di prologo, anche se di tutt’altro genere, a due
capolavori impegnativi e fondamentali come Dialogues des carmélites (1953-1957),
e La voix humaine (1957-1959).

Bozzetto dei costumi per i
Dialoghi delle carmelitane, opera in tre atti.
All’opera con Bernanos
L’argomento dei Dialoghi delle carmelitane è
una storia drammatica ambientata ai tempi della Rivoluzione francese che
finisce con la ghigliottina per sedici suore e per la tormentata
protagonista Blanche. È una grande opera in tre atti, a cui Poulenc si
mise al lavoro con entusiasmo febbrile. Scrive a Bernac che gli sembra di
aver sempre conosciuto le protagoniste del dramma. La continua tensione
poetica del testo di Bernanos non concede le tradizionali alternanze di
recitativi e arie, ma invita alla continuità dell’azione, in una
vocalità congeniale a Poulenc e alla tradizione francese fin dal Pelléas
di Debussy, e giustifica pienamente il titolo di "dialoghi".
La tensione emotiva e teatrale non cede mai il passo alla distrazione, su
temi che tuttavia muovono intorno a domande metafisiche sulla morte e sul
senso della Storia. Il fatto è che Poulenc si colloca sempre accanto alle
ragioni, potremmo dire alle vibrazioni psicologiche dei personaggi. Il suo
mondo conventuale è in costante movimento, fatto di attese, colpi di
scena, litigi, e si mantiene lontano dalle convenzionalità rituali, ad
esempio, della Suor Angelica di Puccini. L’opera, rappresentata
per la prima volta al Teatro alla Scala, fu un notevole successo, legato
anche al vertice assoluto di teatro musicale che è la scena finale. Dopo
un breve periodo di eclissi, l’opera ha ripreso a circolare, e oggi è
entrata a tutti gli effetti in repertorio, con rappresentazioni, fra l’altro,
in quasi tutti i principali teatri italiani.
Quasi avesse un surplus di energie, Poulenc
scrive negli stessi anni un altro lavoro teatrale, non meno famoso, La
voix humaine, su un testo già noto dell’amico Cocteau e per la
fedele interprete Denise Duval. Una donna sola, non giovanissima, al
telefono, ci fa assistere alla conclusione di un amore, un amore che non
vuole finire, che si trascina fino al punto in cui è lei stessa a
chiedere di troncare la conversazione. Il mondo è quello moderno, il
tema, sempre attuale, è quello dell’alienazione e dell’incomunicabilità.
La scrittura vocale è spesso impervia, drammatica, l’ideale cavallo di
battaglia di molti "addii alle scene" di cantanti celebri. Il
tema è assolutamente laico e mondano rispetto alle Carmelitane, ma
è stato osservato che il tratto comune è la determinazione e il coraggio
femminili, lontano ormai dai languori delle Diane cacciatrici.
La produzione strumentale
Poulenc soffriva di depressione. I primi segnali possono
farsi risalire all’incidente del ’36, ma hanno radici precedenti. L’uso
di farmaci contro la depressione è forse all’origine della debolezza
del suo cuore, che lo lasciò ad appena sessantaquattro anni. Essendo tra
l’altro il più giovane rappresentante di una generazione, si trovò
spesso di fronte alla morte di amici cari o compositori ammirati. Tuttavia
gli ultimi anni della sua vita sono ricchi di una produzione di alta
qualità, legata soprattutto all’ambito cameristico. È una produzione
per la quale l’aggettivo neoclassico non ha più senso, tanto è
diventata personale la scrittura, senza perdere di vista accessibilità e
facilità melodica. Se un senso può aver avuto, è per il contrasto che
pagine di tanto luminosa scrittura possono aver avuto con la musica che in
quegli stessi anni Pierre Boulez e le nuove generazioni andavano
elaborando sulle ceneri di Webern.
Ma anche definire semplicemente luminosa la scrittura
dell’ultimo Poulenc è un luogo comune. In realtà si intrecciano motivi
perfino orecchiabili a forme complesse e a pagine drammatiche, purché non
le si ascolti col metro o col filtro di ciò che le neoavanguardie
producevano in quegli stessi anni. La pagina più famosa è senz’altro
la Sonata per flauto e pianoforte (1957). Difficile tentare di
spiegare con l’analisi un pezzo che è soprattutto costante e fresca
ispirazione, e come tale fluisce dall’inizio alla fine, tanto che è
ormai diventato il brano standard nel repertorio di ogni flautista. Meno
conosciute, ma meritevoli di esserlo, le Sonate per clarinetto e per
oboe (1962), quest’ultima con la sua sorprendente conclusione in una
accorata déploration, in morte di Honegger e Prokofiev. Bella
anche la più breve Elegie (1957), per corno e pianoforte, in
memoria del grande Dennis Brain. Nel 1951 era tornato al pianoforte, con
la sonata per due pianoforti, un lavoro massiccio e tragico, complesso
formalmente, che dopo la diffusione datane dal duo Gold-Fitzdale non ha
incontrato grande fortuna. Scrisse anche un Concerto per pianoforte e
orchestra (1949) per se stesso, da suonarsi in una tournée americana,
eccessivamente tradito dal desiderio di piacere, ma con un bell’adagio
di sapore mozartiano.
Il compositore cattolico
Se molte delle pagine che abbiamo ora citato meritano
appieno la loro fama e la loro diffusione, è certamente nella musica di
ispirazione religiosa che troviamo il Poulenc più caratteristico di
questo periodo. Fra i numerosi lavori, dedicati fra l’altro al Natale e
a sant’Antonio di Padova e, nelle intenzioni dell’autore, non tutti
destinati alla sala da concerto, ma alla chiesa, richiameremo l’attenzione
soprattutto sue due: lo Stabat Mater (1950) e il Gloria (1959).
Due pagine molto diverse, com’è naturale aspettarsi, ma complementari
nel disegnare il suo stile ultimo: un perfetto controllo della vocalità,
una partecipazione emotiva che non ha pari nemmeno nei lavori sacri di
Stravinski e forse nemmeno nel più giovane Messiaen (v. Letture maggio
2002, dossier Messiaen), una semplicità apparente che nasconde
sofisticate soluzioni armoniche e formali. Se la sobrietà è il carattere
distintivo dello Stabat Mater, una pagina più apprezzata dai
musicisti che dal grande pubblico, che si conclude con un Amen sospeso
su una dissonanza, una pacata e matura estroversione è il carattere
dominante del Gloria, di cui al soprano solo è destinata la più
intima e variegata declinazione umana (il Domine Deus-Agnus Dei è
diventata ormai una pagina staccata da concerto). È abbastanza
sorprendente che questo lavoro sia stato scritto in un momento storico in
cui perfino Stravinski cominciava a subire il fascino dell’avventura
seriale: totalmente indifferente ai travagli linguistici del dopoguerra,
la musica di Poulenc si affida alla melodia e talvolta a semplici accordi
tonali per raggiungere un ascoltatore che ne può cogliere solo oggi,
forse, una modernità lontana da mode e datati cliché.
Una delle ultime composizioni di Poulenc è un ciclo di
liriche per bambini, che si ricollega alla notissima Histoire de Babar,
le petit éléphant, che aveva improvvisato per la nipote e poi
pubblicato nel ’45. La Courte paille (1960), fu scritta infatti
per divertire il figlio di Denise Duval, ed è basata su brevi nonsense
di Maurice Carême. Brevi incisi, pause accuratamente prescritte, e il
tema del sonno, che apre e chiude il ciclo sembrano lasciare la porta
aperta all’inconscio e alle sue tenebre, che la musica di Poulenc, anche
nei momenti più drammatici, aveva sempre tenuto lontano. Quasi uno
scherzo del destino accompagna invece l’impegnativo Sept répons des
tenbres, destinato all’inaugurazione del Lincoln Center, che non fu
finito in tempo, e perciò eseguito postumo sotto la direzione di Thomas
Schippers, poco dopo la morte del suo autore.
Lorenzo Ferrero
Note
biografiche
1899 Nasce
a Parigi il 7 gennaio. Compone e suona precocemente.
1914 Assiste alla prima (sinfonica) della Sagra della
primavera e ne è entusiasta.
1917 Rhapsodie nègre, prima composizione
significativa, gli vale il rifiuto di entrare in Conservatorio, ma
attrae la curiosità del mondo musicale. Perde il padre due anni
dopo la perdita della madre.
1918 È arruolato nell’esercito, dove conosce Apollinaire,
sui cui testi scrive l’anno dopo Le bestiaire, per voce e
pianoforte, che stupisce per la precoce maturità.
1920 Nascita del Gruppo dei Sei, riunito intorno a Cocteau,
per iniziativa di Blaise Cendrars. Ne fanno parte Poulenc, George
Auric, Louis Durey, Arthur Honegger, Darius Milhaud e Germaine
Talleferre.
1921-24 Prende lezioni di composizione da Charles Koechlin,
illustre didatta.
1924 Prima di Les Biches da parte dei Ballets
Russes a Montecarlo.
1926 Incontra il baritono Pierre Bernac, di cui sarà
accompagnatore ai concerti a partire dal 1935.
1928 Concert champêtre, per clavicembalo e
orchestra scritto per Wanda Landowska.
1929 Aubade per pianoforte e 18 strumenti.
1936 La morte, in un incidente automobilistico, dell’amico
Pierre-Octave Ferroud, lascia una tragica ombra sulla vita di
Poulenc.
1936 Litanies à la Vierge Noire de Rocamadur, primo
lavoro religioso, dove trova la sua dimensione di autore
cattolico.
1939 Concerto per organo, archi e timpani.
1947 Les mamelles de Tirésias, lavoro burlesco da
un testo di Apollinaire.
1950 Stabat Mater, uno dei suoi capolavori di
ispirazione religiosa.
1953-57 Opera Dialogues des carmélites, con la
collaborazione di Georges Bernanos.
1957 Sonata per flauto e pianoforte, uno dei suoi
lavori più eseguiti.
1959 Gloria e La voix humaine.
1960 La courte paille, ultimo ciclo di liriche.
1963 Muore, d’attacco cardiaco, il 30 gennaio. |
Discografia
essenziale
La musica di Francis Poulenc è
edita prevalentemente da Salabert, Paris, ma anche da Ricordi,
Eschig, Heugel, Chester e altri. Il sito delle edizioni Salabert
offre un catalogo completo, con riferimenti agli inediti e alle
altre edizioni.
Raccolte
complete:
- Complete Chamber Music (tutta
la musica da camera). Interpreti vari RCA 74321 632122 (2 cd).
- Complete Piano Music (tutta la musica per
pianoforte). Eric Le Sage, piano RCA 74321 632143 (3 cd). oppure
Pascal Rogé, piano Decca 460 598-2 (3 cd).
- Complete Orchestral Music and Concertos (tutta la
musica orchestrale e i concerti). Orchestre National de France,
Philharmonia Orchestra, direttore Charles Dutoit Decca 460
597-2 (3 cd).
- Les mamelles de Tirésias / Le bal masqué, Saito
Kinen Orchestra, direttore Seiji Ozawa Philips 456 504-2 (1
cd).
- Concertos, orchestral & sacred music (Concerti,
musica sacra e religiosa). Interpreti e orchestre varie, di vari
periodi. Direttori Georges Prêtre, Pierre Dervaux, Michel Plasson,
René Duclos, Yvonne Gouverné, Jacques Jouineau EMI 5 66837 2
(5 cd).
- Vocal works (Opere vocali): Dialogues des
carmélites; Les mamelles de Tirésias; La voix humaine; Le
gendarme incompris; L’histoire de Babar le petit éléphant; La
dame de Monte Carlo; Le bal masqué; L’invitation du château;
Sécheresses; Figure humaine; Un soir de neige. Interpreti
vari EMI 5 66843 2 (5 cd).
Singole
incisioni:
- Concerto per organo / Concert champêtre. Philippe
Lefebvre, organo Elisabeth Chojnacka, clavicembalo Orchestre
National de Lille, direttore Jean-Claude Casadesus NAXOS
8.554241.
- Mélodies (Banalités - Montparnasse -
Rosemonde --Bleuet - Quatre poèmes d’Apollinaire - Tel jour
telle nuit - Chansons gaillardes - C’est ainsi que tu es -
Dernier poème - Priez pour paix - Chansons villageoises). Christine
Lajarrige, pianoforte / Michel Piquemal, baritono NAXOS
8.553642.
- Stabat Mater / Gloria. Danielle Borst, soprano
Orchestre de la Cité Choeur Régional Vittoria de l’Ile-de-France,
conductor Michel Piquemal, NAXOS
8.553176.
|
Bibliografia
essenziale
Pierre
Bernac, Francis Poulenc et ses mélodies, Buchet/Chastel,
Paris 1978.
Francis
Poulenc, Journal de mes mélodies, Cicero, Paris 1993
(ristampa da Grasset).
Wilfrid Mellers, Francis
Poulenc, Oxford University Press, Oxford 1993 (con analisi
musicali). - Benjamin Ivry, Francis Poulenc, Phaidon
Press, London 1996 (con molti dettagli sull’omosessualità di
Poulenc e belle fotografie).
Francis
Poulenc, Correspondance 1910-1963, Fayard, Paris 1999
(la corrispondenza praticamente completa).
Carl
B. Schmitt, Entrancing Muse. A Documentary Biography of Francis
Poulenc, Pen-dragon Press, London 2002 (documentazione
ricchissima, ma per addetti ai lavori e biblioteche).
|
|