Se
mi si chiedesse quali sono i libri più importanti per la lingua italiana,
non esiterei a rispondere citando due titoli, il De vulgari eloquentia di
Dante e le Prose della volgar lingua di Bembo. Se continuassimo in
questo gioco, elencando altre grandi opere della "biblioteca dell’italiano",
allora menzionerei alla rinfusa il Vocabolario della Crusca, l’Hercolano
di Varchi, gli scritti di Manzoni, il Proemio di Ascoli, il Saggio
sulla filosofia delle lingue di Cesarotti e magari la prima grammatica
in assoluto dell’italiano, scritta da un artista quale l’Alberti, o la
prima grammatica a stampa, di Giovanni Francesco Fortunio. Sono certo che
molti lettori si saranno trovati poco a loro agio: avranno riconosciuto
alcune delle opere elencate, ma di fronte ad altre saranno rimasti
sconcertati, come alla presenza di erudizione peregrina. La scarsa cura
con cui si impartisce la formazione storico-linguistica fa sì che molti
laureati in lettere ignorino tutto o quasi della storia del nostro idioma,
pronti magari a bere la favola che l’italiano si sia imposto con
violenza sui dialetti, o sia il frutto del colonialismo di chissà quale
potere statale.
Lasciamo da parte queste lamentele, per prendere atto
della pubblicazione di due strumenti utilissimi per la miglior conoscenza
di uno degli autori citati, il cinquecentesco cardinale Pietro Bembo,
artefice delle Prose della volgar lingua. Questi strumenti sono: a)
l’edizione critica dell’editio princeps delle Prose medesime
(ed. 1525); b) gli atti di un magnifico convegno, tutto dedicato alle Prose,
svoltosi il 4-7 ottobre 2000, promosso dalla professoressa Silvia Morgana.
Come si vede, si tratta di due strumenti altamente specialistici. Prima di
parlarne, dunque, richiamerò alcune nozioni elementari relative al Bembo
e alle sue Prose della volgar lingua.
Le Prose della volgar lingua sono importanti
perché rappresentano il primo tentativo pienamente riuscito di stabilire
le norme dell’italiano, definendone in maniera precisa le regole
grammaticali, sulla base di una teoria complessa e completa, esposta dall’autore
in un dialogo, come si usava fare nel Cinquecento.
I tre libri originali
Nel 1525 Bembo pubblicò dunque la prima edizione del
suo capolavoro, composto di tre libri: i primi due erano destinati a
trattare questioni teoriche (l’origine del volgare, quale fosse il
miglior volgare, quale giudizio si dovesse dare delle altre teorie
linguistiche, perché si dovesse scegliere il volgare anziché il latino
ecc.), il terzo era destinato a contenere una vera e propria grammatica,
pur diversa da quelle a cui la scuola ci ha abituati. Infatti anche questa
parte, più tecnica, era svolta nella forma dialogica: dunque una
grammatica senza schemi, senza tabelle, raccontata attraverso il botta e
risposta tra gli amabili e coltissimi partecipanti alla bella
conversazione.
Era
questa la prima grammatica italiana? No. Prima di essa ce ne sono altre
due, una attribuita a Leon Battista Alberti, rimasta manoscritta; l’altra,
pubblicata da un letterato molto meno famoso di Bembo, ma anch’egli
proveniente dal Nord-est, il Fortunio, il quale nel 1516 aveva dato alle
stampe ad Ancona (dove svolgeva la funzione di podestà) le Regole
grammaticali della volgar lingua. Quella di Bembo fu dunque la terza
grammatica italiana, in ordine cronologico; ma fu la prima per importanza,
cosa di cui l’autore era ben conscio. Essa sancisce il trionfo di una
teoria che si usa definire "toscanista arcaicizzante", perché
prende a modello, per fissare la norma, i grandi autori toscani del
Trecento. Si tratta di una teoria linguistica intrisa di classicismo,
maturata attraverso un’analoga elaborazione relativa alla lingua latina,
una teoria destinata a far giustizia della varietà scrittoria che aveva
caratterizzato il Quattrocento, quando erano vitali i latinismi spinti e
quando affioravano frequenti localismi. La grammatica di Bembo significa
ordine, regola, eliminazione di plebeismi, eliminazione di latinismi
lessicali, ma costrutto sintattico latineggiante. Dopo Bembo l’italiano
fu diverso, più stabile, meglio regolato, più elegante. Oltre al resto,
Bembo introdusse nella nostra lingua l’apostrofo, traendolo dal greco.
Il lavoro di Carlo Dionisotti
Dopo l’edizione delle Prose del 1525, l’autore
ne curò una seconda, nel 1538, sempre a Venezia, presso il tipografo
Marcolini. In seguito preparò una nuova edizione, ma morì prima di
portarla a termine. Essa uscì postuma, nel 1549, non più a Venezia ma a
Firenze, curata da Benedetto Varchi, un fiorentino la cui opera è stata
molto importante per i destini dell’italiano. L’edizione delle Prose
che siamo soliti leggere, a cura di Carlo Dionisotti, è appunto
questa del 1549, considerata (non a torto) espressione dell’ultima
volontà dell’autore.
Ora, come ho detto in apertura, è stata pubblicata l’edizione
critica non dell’edizione del 1549, ma dell’edizione del 1525, la princeps.
Nell’apparato di questa edizione critica si trovano le varianti che
permettono di seguire passo passo l’evoluzione dal manoscritto Vaticano
latino 3210, autografo. Vediamo dunque come Bembo arrivò alla prima
stampa, attraverso le modifiche, le correzioni e i pentimenti presenti
nello stesso manoscritto vaticano, e attraverso le sue differenze rispetto
alla princeps. Si tratta perciò di un’edizione
"genetica", nel senso che attraverso di essa si assiste alla
"genesi" di questo capolavoro.
Non vi nascondo che si tratta di un’edizione
raffinatissima ma difficile da usare. Alle pagg. CII-CV il benemerito
curatore, Claudio Vela, ha pensato bene di introdurre persino un piccolo
corso che insegna a usare l’apparato critico: l’autore aveva il
sospetto che anche lo specialista avrebbe finito per trovarsi in
difficoltà. Il libro è infine dotato di un prezioso segnalibro in
cartoncino. Guai se lo si perde! In esso sono riprodotti tutti i segni
speciali usati dall’editore, segni il cui significato non è certo
intuibile con facilità senza la chiave apposita, *...*,
+...+, a... a, b... b, P... P, E... E, "...", "....",
>...<, per limitarmi ai pochi che riesco a riprodurre mediante la
comune tastiera del mio pc.
Per quanto macchinosa, questa edizione critica mi sembra
di grande utilità e di notevole rilievo, in considerazione dell’importanza
dell’opera. Certo, se ci si mettesse a produrre edizioni critiche così
complesse per libri di minor peso, sarei tentato di reagire con un moto di
stizza; ma trattandosi di Bembo, sia benvenuta anche la complessità...
Claudio Marazzini