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In margine al
convegno di Letture sulla narrativa, pubblichiamo tre contributi
esclusivi. Il complesso rapporto dei credenti con le espressioni artistiche nell'analisi
di un grande scrittore israeliano. Le provocatorie proposizioni di Paco Ignacio Taibo II e
di un giovane italiano. Quando, cento e vent'anni fa, Friederich Nietzsche enunciò il capitolo terzo
della sua celebre La gaia scienza sulla morte di Dio, questa dichiarazione ebbe
allora su tutta la classe intellettuale dell'Occidente l'effetto di una scossa elettrica.
Era davvero impossibile condividere la convinzione del filosofo, secondo cui Dio era
vissuto sino a quel momento e soltanto allora, cioè alla fine del secolo XIX, era
improvvisamente scomparso dal mondo. Se così stavano effettivamente le cose, perché
soltanto allora? E quali erano dunque il significato e la potenza di questo Dio nella
coscienza storica umana, per ritrovarsi così da un giorno all'altro privo di vita? O
forse la realtà non ha mai conosciuto un Dio, e il genere umano si affida alla sovranità
di null'altro che l'ombra di un Dio? Forse però, la frase del filosofo va intesa non come
la constatazione di un dato di fatto - Dio è morto -, bensì come un proponimento,
un'aspirazione: sarebbe meglio che Dio, o se non altro il concetto di Dio, non agisse più
nella coscienza umana, perché fa più male che bene, perché distoglie la coscienza da
quella che è l'autentica missione dell'uomo: realizzare sé stesso, secondo le proprie,
peculiari vie.
Sia quel che sia. A Nietzsche non mancano certo gli interpreti
dell'ultima ora pronti ad affannarsi nel tentativo di sondare il segreto che celano le
parole di quello che è stato sicuramente il maggior filosofo dell'ultimo scorcio del
secolo passato, e che continua ad agitare molti animi anche nel nostro, producendo un
grande fermento presso intellettuali ed artisti. Agli inizi di questo secolo parve
effettivamente che l'umanità avesse deciso di ascoltare il consiglio di Nietzsche e fosse
disposta a liberarsi di quell'immagine di Dio connaturata a sé, a lasciare tanto l'arte
quanto la fede alle regole e ai dettami loro propri, vuoi per libera scelta come
espressione di fiducia nella scienza, nella ragione e nella libertà dell'uomo, vuoi come
rigida imposizione da parte del comunismo, che definì la religione "oppio dei
popoli", o del fascismo, che trasformò un dio spirituale in un dio in carne ed ossa.
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Abraham Yehoshua |
Ma ora che ci avviciniamo alla fine del ventesimo
secolo, siamo a quanto pare di nuovo daccapo: se Nietzsche dichiarasse di questi tempi che
Dio è morto, non pochi intellettuali e persino scienziati di vaglio prenderebbero sul
ridere questa affermazione e inviterebbero il filosofo a guardarsi intorno e constatare
personalmente non solo il fatto che le grandi religioni sono vive e attive e che i
credenti non hanno la minima intenzione di rassegnarsi alla morte degli dei, ma anzi, che
sono in continuo aumento, malgrado le scienze naturali e sociali conquistino nuovi
territori dello spazio cosmico e umano ogni giorno che passa.
Nel mondo ebraico, gli osservanti, coloro che seguono la tradizione,
sono sempre di più, e l'ortodossia non fa che acuire il proprio estremismo. E coloro che
per natura sono portati al laicismo, come ad esempio la grande comunità ebraica
nordamericana, non trovano altro modo per conservare la propria identità ebraica se non
un qualsivoglia contatto con la casa di preghiera e tutto ciò che è legato al culto;
anche la sinagoga riformata con tutte le comodità e licenze che si prende nei confronti
della tradizione, è pur sempre una sinagoga. La recente avanzata del fondamentalismo nei
paesi islamici è già stata ampiamente studiata, varie e approfondite teorie sono state
formulare in proposito. I mussulmani sono per definizione stessa uomini di fede, e la
simbiosi fra stato e religione ha rappresentato una costante anche nei periodi in cui
l'Islam si è manifestato in forma moderata e conciliante.
Una crescente tensione
religiosa
Oggi,
anche in quei paesi in cui l'Islam non ha ottenuto il controllo assoluto del regime, si
assiste a una crescente tensione religiosa. La religione diviene poi il fattore dominante
per centinaia di milioni di persone, non solo dei paesi arabi ma anche di altri del mondo
islamico, quali l'Iran, il Pakistan, la Malesia e altri. Anche il cristianesimo nelle sue
varie sfaccettature non è più certamente sulla difensiva, anzi, assiste ad un processo
di espansione e rafforzamento. L'Europa dell'Est e la Russia, liberatesi dagli ultimi
residui di comunismo, stanno scoprendo un antico cristianesimo rimasto a lungo accantonato
e represso, e cercano di riconnettersi a questi valori fossanche soltanto per
tornare a quel passato precomunista. Un vivo senso della fede è ciò che, ad esempio, ha
dato ai polacchi la forza di ribellarsi per primi al comunismo. Non c'è dunque di che
stupirsi se milioni di credenti, in bilico fra il vecchio e il nuovo fanno affidamento
sulla chiesa cristiana.
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Da sinistra: Ferruccio Parazzoli, Sandro Veronesi e Lidia Ravera. |
«Non sono
d'accordo con Bloom»
Negli
Stati Uniti, che hanno sempre considerato il pluralismo religioso come parte intrinseca
della identità americana, la religione non sta affatto perdendo terreno. Non solo molti
cittadini afroamericani continuano a cercare nella chiesa una qualche consolazione di
fronte alla discriminazione e al dolente ricordo del proprio passato, anche nei nuovi
ambienti conservatori fioriscono nuove espressioni religiose. Anche se non ci troviamo
d'accordo con il professor Harold Bloom dell'Università di Yale, il quale sostiene che
alla fine del secolo ventunesimo la maggior parte degli americani saranno o mormoni o
battisti meridionali, ci sembra evidente che Dio, almeno in quanto concetto umano e
sistema di fede, abbia e avrà ancora un ruolo importante nella realtà sociale americana.
La protesta violenta contro ambulatori e medici che praticano l'aborto, testimonia
anch'essa la forza d'impatto della religione presso molti americani che il movimento
femminista e la lotta per i diritti civili non smuovono dall'attaccamento a vecchi
principi.
Non conosco abbastanza le religioni orientali per potere fornire
delle definizioni in qualche modo significative, ma mi pare che la viva religiosità tanto
degli indiani quanto dei giapponesi abbia sempre rappresentato una componente essenziale
della loro identità, e per questo anche fra i tecnologi più all'avanguardia e i grandi
operatori finanziari giapponesi scorrono profondi fremiti di autentica fede religiosa.
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Luce d'Eramo e Michele Prisco. |
Come far
avvicinare all'arte?
Ho
esordito con questa premessa quasi ovvia, sì da arrivare al nocciolo della questione che
vorrei affrontare, e cioè la natura dei complessi e problematici rapporti fra religione e
arte. Con ciò non intendo soffermarmi soltanto sull'aspetto teorico di questi nessi, ma
tentare anche di scendere sul terreno dei rapporti pratici, effettivi. Vale a dire: come
si può avvicinare il pubblico religioso all'arte del nostro tempo e rendere questo
pubblico un fruitore dell'arte, a profitto sia di sé stesso sia dell'arte?
I legami fra religione e arte sono inevitabilmente tesi e complessi,
dotati tanto di una profonda interdipendenza quanto di una forte misura di sfida, di
apporto reciproco ma anche di sospetto e ostilità. Sia la religione sia l'arte hanno per
ambito la spiritualità umana, entrambe mirano a sondarne le profondità per
modificarla in qualche modo, per purificarla e per temprarla. Ogni confessione religiosa
sa che per aprire la mente dell'uomo e metterla in relazione con la numinosità e con le
forze invisibili che popolano il mondo, non può fare a meno di supportarsi con i mezzi
artistici, i quali risvegliano la capacità immaginativa e accrescono la capacità di
immedesimazione. Ogni credenza religiosa sa anche però che, quando non è frenata o
guidata dall'etos religioso, l'arte può diventare pericolosa e ribelle, se non
altro perché l'ossigeno che l'alimenta è la libertà: senza contare che essa necessita
di un'alta concentrazione di questo ossigeno, in altre parole di una grande misura di
libertà, fondamentale non solo per la creatività , ma anche per "intercettare"
il destinatario. L'arte rappresenta per la religione una potenziale minaccia, perché può
indurre alla convinzione che la tradizione religiosa non sia indispensabile per trovare la
strada giusta, che l'uomo è in grado di intessere autonomamente il proprio legame con la
divinità.
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Giovanni Mariotti |
Più la fede è monoteistica e fornita di un rigido
sistema di precetti e di leggi da applicarsi alla vita quotidiana, più sono angusti gli
spazi che essa concede all'attività artistica. Tale è infatti la religione ebraica che,
proponendosi come una confessione rigorosamente monoteistica e avversa a ogni forma di
paganesimo, ha sin dal principio manifestato ostilità verso ogni propensione estetica, in
particolare se legata alla materia - sia essa scultura o raffigurazione pittorica. Per
centinaia di anni gli ebrei religiosi hanno vissuto presso i maggiori centri di cultura
dell'Europa, dando mostra di un'eccellente creatività nell'ambito della filosofia e dei
diritto, ma non in quello dell'arte. Accanto a Leonardo da Vinci e Michelangelo, a
Shakespeare o Moliére, Rembrandt o Goya, non si sono avuti artisti ebrei particolarmente
significativi.
È stato solo in questi ultimi due secoli, con l'avvio del processo
di laicizzazione degli ebrei, che di colpo è esplosa un'energia creativa e artistica
rimasta sopita per un lunghissimo periodo. I molti scrittori, pittori e musicisti ebrei
che hanno stupito il mondo in questi ultimi cent'anni, non esprimono soltanto sé stessi
ma sono anche in fondo gli emissari ed eredi di quei loro avi artisti che non hanno potuto
realizzarsi perché la religione ebraica non ha concesso loro uno spazio adeguato per
esprimersi autenticamente.
Nell'Islam, anch'esso una fede schiettamente monoteistica,
l'espressione artistica ha avuto margini leggermente più ampi, soprattutto
nell'architettura. Ma anche qui l'arte è stata sottoposta a rigido controllo. Nel
cristianesimo, e soprattutto nel cattolicesimo, questi margini erano ancora più ampi,
tuttavia, malgrado la vastità e la ricchezza delle testimonianze, restavano pur margini,
in cui la fede cercava non solo di fissare la sede autentica in cui l'uomo si misura con
gli interrogativi fondamentali della vita, ma anche di stabilire con evidenza che lo scopo
vero dell'arte è di trasmettere il messaggio religioso.
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Ferdinando Camon |
Laicizzazione
e democrazia
Nel
corso degli ultimi due secoli il mondo ha avviato un processo di profonda laicizzazione,
non soltanto abbandonando la fede e negando l'esistenza di Dio, ma anche e soprattutto con
il distacco dalla supervisione religiosa di ambiti complessivi dell'esperienza umana: la
scienza il mondo sociale lo stato e ovviamente anche l'arte in tutte le sue
manifestazioni. L'uomo emancipato ha dato espressione alla propria nuova e piena libertà
essenzialmente nel contesto dell'arte, che è stata il battistrada più dirompente verso
una posizione critica nei confronti della società, dello stato e della religione.
Eccoci allora alla fine del ventesimo secolo, alla fine del secondo
Millennio, accompagnata dall'inebriante sensazione che la democrazia abbia davvero
trionfato nella lotta fra i due blocchi - per intenderci, la guerra fredda che la scienza
ci apra continuamente nuovi orizzonti. Ciononostante, sono ancora in molti a non voler
rinunciare non soltanto alla fede e a Dio, ma anche al contesto religioso in sé, ad
imporsi per libera scelta il giogo di precetti e norme di comportamento. Alcuni lo fanno
pur continuando ad agire e vivere nel contesto della società moderna, altri invece
preferiscono ridurre ai minimi termini la propria presenza attiva nel mondo per dedicarsi
il più possibile alla sfera religiosa. La maggior parte di coloro che appartengono a
questa categoria non sono quei "naturali consumatori" di arte cui rivolgersi,
vuoi nella danza vuoi nella musica o nel teatro.
Ci sono persone che non hanno mai messo piede in un auditorium
per sentire un'orchestra suonare Beethoven o Mozart, che non hanno mai visto uno
spettacolo di danza o di teatro. Sono convinto che i mussulmani più integralisti, non
necessariamente poveri o incolti, si facciano vedere assai di rado nei centri culturali
dei paesi islamici, e ho l'impressione che anche i gruppi più corretti e acculturati,
come i mormoni o i cristiani più ferventi nel sud degli Stati Uniti, preferiscano la
pacata musica dei loro cori all"'Uccello di Fuoco" di Stravinsky
o al corpo di ballo di Balanchine.
Da più di vent'anni sono un abbonato ai concerti dell'orchestra
filarmonica israeliana e continuo a stupirmi del fatto che fra il pubblico che affolla la
sala si contino così pochi ebrei religiosi con la kippah in testa,
presumibilmente moderati. Va da sé che non è una questione di mancanza di denaro
o di inadeguatezza culturale, giacché negli altri contesti sociali, nell'ambito
dell'economia, della scienza e della giustizia, i religiosi collaborano attivamente. Sta
di fatto che invece vengono assai poco anche a teatro, benché qui la situazione sia
leggermente migliore che nelle sale concerti o negli spettacoli di danza.
Lo stesso discorso vale per gli artisti religiosi; sono ancora molto
pochi, fra i fedeli, coloro che producono arte. In effetti la situazione è decisamente
migliore nell'ambito dei religiosi moderati israeliani, ma è innegabile che un rilevante
segmento di popolazione peraltro affermata in ambiti quali la giustizia, la ricerca
universitaria e persino l'esercito, si tiene lontano dal mondo dell'arte.
Nella Francia della metà di questo secolo un artista del calibro di
François Mauriac ha scelto di definirsi prima di tutto come scrittore cattolico e poi
come scrittore francese. Vi è forse un suo erede fra gli scrittori francesi di oggi?
Nonostante vi siano sporadiche esperienze di artisti religiosi sia fra gli ebrei, sia fra
i cristiani osservanti sia fra i mussulmani ortodossi, è evidente che non si tratta di
artisti di spicco. Che inoltre preferiscono dedicarsi più a un'arte legata alla propria
esperienza collettiva di fede, piuttosto che tentare un'espressione dal significato
universale.
Segue:
Arte e religione alla fine del millennio - 2
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