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Quanto conta il testo nel successo di una canzone? O, meglio, quanto conta la
qualità di un testo nel meccanismo di presa sul pubblico? Di per sé, infatti, le parole
cantate possono essere importantissime o irrilevanti. Appartengono alla prima categoria,
per esempio, i testi della canzone politica anni Settanta (Ivan Della Mea, Paolo
Pietrangeli, il Guccini più datato
), quando la melodia era poco più che un
pretesto per raddrizzare torti o annunciare rivoluzioni. Allestremo opposto, verso
la deriva del "significante zero", potremmo invece collocare il primo successo
degli 883, lemblematico e a suo modo folgorante nonsense di Hanno ucciso
lUomo Ragno, dove motivi di rima e percussioni imponevano che il supereroe dei
fumetti venisse fatto fuori dalla «pubblicità» oppure da «qualche ditta di caffè».
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Lucio Dalla |
Ma sarebbe un grossolano errore accontentarsi di
questa contrapposizione schematica fra pienezza e assenza di significato. Anche senza
volersi addentrare nellinsidiosa querelle sullo statuto poetico della
canzonetta, infatti, non si può fare a meno di riconoscere che in musica leggera
come in letteratura a fare la differenza non è tanto quello che si dice, quanto il
modo in cui lo si dice.
Un estroso Bersani
Facciamo
il caso di Canzone, lhit che ha imposto il più recente album di Lucio
Dalla (Canzoni, 1996). Buona parte del successo va senza dubbio attribuito alla
musica, composta dallo stesso Dalla e arrangiata da Mauro Malavasi, con quella trovata
geniale del violino che entra in concorrenza con la base ritmica. Ma sarebbe un errore
sottovalutare le suggestioni del testo, firmato ancora da Dalla in collaborazione con
Samuele Bersani, forse il più estroso fra i cantautori delle ultime generazioni.
A dispetto della sua apparente semplicità, Canzone alterna
tre diversi livelli testuali: una dichiarazione damore in cui convivono romanticismo
e crudezze ( «Io i miei occhi dai tuoi occhi / non li staccherei mai / e adesso anzi io
me li mangio / tanto tu non lo sai»); una sorta di pre-ritornello che sigilla ogni strofa
( «Stare lontano da lei non si vive / stare senza di lei mi uccide»);
infine, un altro ritornello sui generis, il cui testo varia, sia pure leggermente,
di volta in volta.
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Paolo Conte |
La vera invenzione del testo sta proprio in questo
terzo elemento, che affida alla canzone stessa lincarico di cercare la donna amata:
«Canzone, cercala se puoi / dille che non mi perda mai / va per le strade tra la
gente / diglielo veramente». Soltanto che non di invenzione si tratta, ma di citazione. E
di un precedente celeberrimo, ovvero la "ballatetta" di Guido Cavalcanti, testo
cardine dello Stilnovo, in cui lamico di Dante, muovendo da una situazione di esilio
reale o immaginario ( «Perchi non spero di tornar giammai, / ballatetta, in
Toscana»), trasforma il proprio componimento in messaggero damore ( «va tu,
leggera e piana, / dritta la donna mia»). È forse la più famosa poesia di
Cavalcanti, rievocata fra gli altri dallEliot di Mercoledì delle Ceneri (
«Because I do not hope to turn again»), ma che a sua volta si riallaccia a una
tradizione di personificazione o, più tecnicamente, prosopopea del testo
scritto di cui si trova già traccia nellOvidio dei Tristia, altro canzoniere
desilio che si apre con lappello al libro inviato a Roma da solo ( «sine
me», lamenta lautore delle Metamorfosi).
Il martellante fascino di
"certe notti"
D'accordo, non tutte le canzoni si pongono, come questa di Dalla e Bersani, al
centro di un intreccio così complesso. Eppure tutte, in un modo o nellaltro,
finiscono per rivelarci qualcosa del profilo letterario degli autori.
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Gino Paoli |
Prendiamo Luciano Ligabue, rocker padano,
autore anche di un acclamato quanto discutibile libro di racconti (Fuori e dentro il
borgo, Baldini & Castoldi, 1997). Ammiratore dichiarato della Beat Generation,
coerentemente il "Liga" predilige la figura retorica amatissima dal
Ginsberg di Urlo dellanafora o ripetizione. La sua canzone più
conosciuta, Certe notti (dallalbum Buon compleanno, Elvis, 1995), deve
il suo fascino proprio alla ripresa martellante, a versi alterni, delle parole del titolo:
«Certe notti la macchina è calda / e dove ti porta lo decide lei. / Certe notti la
strada non conta / che quello che conta è sentire che vai».
Un discorso analogo vale per un altro successo di Ligabue, Ho
messo via (da Sopravvissuti e sopravviventi, 1993), dove pure non mancano
momenti felici di sintesi: «Ho messo via un po di illusioni / che prima o poi basta
così / ne ho messe via due o tre cartoni / comunque so che sono lì».
Nessuna traccia di Cavalcanti, neppure involontaria, invece, in
Ligabue, che del resto non ha alcuna pretesa sia nelle canzoni sia nei libri
di una qualche ricercatezza letteraria. Al punto da cadere spesso in ripetizioni
tuttaltro che stilisticamente intenzionali, come capita, per esempio, nella recente Il
giorno di dolore che uno ha (una delle tre canzoni inedite dellalbum dal vivo Su
e giù da un palco, 1997), che imbocca scorciatoie abborracciate del tipo: «quando
batte un po di sole / dove ci contavi un po».
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Ivano Fossati |
La
collaborazione Battiato-Sgalambro
Che
nelle canzoni la cultura aiuti ma non sia indispensabile lo dimostra anche la
collaborazione tra Franco Battiato e il filosofo-paroliere Manlio Sgalambro. Dopo
lesordio nel 1995 con Lombrello e la macchina da cucire, che conteneva
testi di straordinaria forza evocativa e concettuale come Lesistenza di Dio (
«Ancora una cosa, / mente a Ockam prego: / Dio differisce dalla pietra / perché questa,
dice, è finita. / La teologia vi invita, / anzi vi impone di / immaginare / una pietra
infinita»), lanno successivo i due sono tornati a lavorare insieme per Limboscata,
un album in cui, anche sul piano musicale, il pop sembra prendere il sopravvento.
Qui Franco Battiato è coautore di un paio di testi, compreso quello
della fortunata La cura, brano volutamente percorso sia da locuzioni ricercate (
«Supererò le correnti gravitazionali, / lo spazio e la luce / per non farti
invecchiare»), sia da espressioni desunte dalla quotidianità ( «Ti solleverò dai
dolori e dai tuoi sbalzi dumore, / dalle ossessioni delle tue manie»). Anche nei
testi del solo Sgalambro, comunque, il tessuto finissimo di citazioni che ne Lombrello
e la macchina da cucire caratterizzava, per esempio, Gesualdo da Venosa, lascia
il posto a una vena più narrativa, a tratti forse anche autobiografica, che curiosamente
sembra affidare alla musica il compito di nobilitare parole così semplici da rischiare
altrimenti di risultare dimesse.
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Pino Daniele |
Paradosso per paradosso, vale forse la pena di
concludere sottolineando come lunica canzone dautore che in questi anni abbia
svolto un ruolo politico sia La canzone popolare di Ivano Fossati (dallalbum Lindbergh,
1992), adottata come inno dellUlivo alle elezioni del 96. Bene, provate a
leggerne il testo: molti squarci lirici, come spesso accade in Fossati ( «Sono io sono
proprio io / che non mi guardo più allo specchio / per non vedere le mie mani più veloci
/ né il mio vestito più vecchio»), ma di ideologia neppure lombra. Ariprova,
forse, del fatto che la politica oggi riguarda più lemozione che il pensiero. Ma
anche una bella occasione per dimostrare come la canzone debba la sua forza a qualcosa che
non è il solo testo, né la sola musica, ma la misteriosa alleanza tra questi elementi e
le aspettative del pubblico.
Alessandro Zaccuri
Segue: Si salvano solo i jazzisti. Il resto
è cascame
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