1) - Cose
in cui uno crede, cose in cui non crede Credo nella letteratura e
in sua madre, il romanzo, col fervore degno di un fondamentalista eretico, di un
supertifoso del calcio, di un gruppettaro del rock; credo anche nelle virtù dei romanzi
non molto belli, se uno non ha altro a portata di mano. Credo nel diritto alla
sperimentazione, ma credo anche nei diritti del lettore di piantar lì un libro a pagina
30 e buttarlo dalla finestra.
Credo che non esistano i classici, le letture obbligatorie,
la necessità di essere alla moda o di leggere quello che i critici pensano sia
fondamentale leggere. Credo che il Parnaso non esista, e che se esistesse sarebbe una
taverna messicana i cui portieri non sarebbero certo Octavio Paz o i membri del comitato
svedese del Nobel.
Credo nelle letteratura come una meravigliosa, personale,
irripetibile relazione tra autore e lettore. Sono un selvaggio che pensa che un buon
romanzo dura sei volte un film e venticinque volte un lungo orgasmo.
Sono convinto che nessun romanzo verrà letto due volte
nella stessa maniera, nemmeno nella rilettura della stessa persona (in una specie di
fatica di Ercole letteraria).
E credo soprattutto nel carattere sovversivo della
letteratura, nella sua capacità di entrare nella mente del lettore e fargli vedere altri
paesaggi, fargli provare altre sensazioni, fargli scoprire altri pianeti. Credo che la
caratteristica fondamentale della letteratura si fondi sulla capacità di far vedere il
mondo con gli occhi di un altro, degli altri.
Credo che le virtù di un narratore si basino sulla sua
capacità di sconcertare il lettore, incantarlo (con la stessa abilità degli incantatori
di serpenti).
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Paco Ignacio Taibo II |
Credo che il romanzo sia un campo di
battaglia tra lettore e autore dove la lotta per il dominio del libro, se è vinta dal
lettore, porta a una lettura poco entusiasmante, con finali prevedibili. Credo che un
romanzo debba suscitare un amore più grande del primo amore o una paura maggiore di
quella che incute il dentista.
Non credo nelle virtù pedagogiche del romanzo, me nelle
sue grandissime possibilità di dare uneducazione informale. So come lettore che
conosco la Venezia del secolo XVI e i bassifondi di Chicago in cui non sono mai stato
grazie alla letteratura.
Credo senzaltro che il romanzo non sia un ritratto
realista e che ogni città che viene descritta sia inventata, ricostruita. Credo che la
finzione riordini la realtà inventandola. Credo che la letteratura sia artificio,
simulazione della realtà, invenzione dopotutto. Credo che un buon romanzo parta da un
patto diabolico col lettore, dalla convenzione: "Mi crederai finché mi starai
leggendo". Credo che la chiave sia la credibilità e non la realtà. Che non si
lavori con le fotocopie, ma con lessenza delle cose.
Non credo che esista quella che è stata definita
"letteratura devasione". Penso che quando un impiegato di un ufficio di
merda si nasconde nella toilette per leggere un fantaromanzo con spiritelli e fate,
principesse baldracche e cani che sputano fiamme, non sta compiendo un gesto di evasione
bensì di liberazione. Credo che nella letteratura non esista il viaggio di sola andata,
che tutti i viaggi siano di andata e ritorno e che il lettore ritorni arricchito alla vita
quotidiana.
Credo che il romanzo sia la vita e che la vita sia la
letteratura e che tutte e due si muovano in spazi condivisibili e intercambiabili.
2) - Confessioni
Leggo e scrivo alla ricerca di un romanzo impossibile, un romanzo
interminabile, al quale prima o dopo si ritorna. So che esiste perché lungo molti anni ho
letto questo romanzo varie volte. Ragion per cui forse il mio romanzo impossibile sarà
possibile. Scrivo godendomi ogni pagina, sempre sorprendendomi. E quando ciò che scrivo
non mi sorprende più, con un colpo alla tastiera lo mando allinferno virtuale del
nulla computerizzato. Il giorno in cui perderò il piacere della scrittura, smetterò di
scrivere e continuerò a leggere. Il giorno in cui non potrò più leggere, morirò.
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Giuseppe Pontiggia e Luca Doninelli. |
3) -
I colpevoli
Una giornalista italiana mi domanda: "Chi è colpevole del fatto che in
questi ultimi anni sono stati perduti tanti lettori?" Rispondo: "Noi scrittori
siamo i colpevoli". Pensa che ci sia stato un errore nella traduzione e insiste.
Insisto nella risposta. So che lei vuole che le risponda, con la primitiva innocenza della
sinistra, che la colpa è del sistema, dei videogiochi, della televisione, di internet,
della mancanza di tempo dei lettori urbani intrappolati nel traffico delle grandi città e
degli eccessi delloccupazione e della disoccupazione; e anche del sesso virtuale,
della banalizzazione della cultura, del disastro dei sistemi educativi. Ma mi rifiuto di
cadere nella trappola. Ogni volta che un lettore deluso abbandona la lettura, ognuno di
noi se lo è fatto scappare, a perderlo è stata la nostra incapacità di divertirlo,
affascinarlo, emozionarlo, inquietarlo, incontrarlo (e qui aggiungo le responsabilità
degli editori).
Qual è stato il momento in cui il romanzo è diventato un
esperimento di linguaggio e ha perduto la sua natura di arte maggiore, di arte del
narrare? In che momento abbiamo cominciato a pensare che il fine dellesperimento non
era la narrazione, ma lesperimento stesso? In che momento noi romanzieri ci siamo
introdotti in un linguaggio segreto, in un circuito di comunicazione interprofessionale in
cui i romanzi si scrivevano per gli scrittori o per i professori universitari e il
destinatario finale era la gloria del successo post mortem? In che momento è
venuto meno il rapporto con i lettori?
Perché cediamo lo spazio della narrativa al best
seller fatto di personaggi schematici, atmosfere pressoché inesistenti, situazioni
senza ambiguità, storie piatte, lineari? Chi ha potuto pensare che la trascendenza
minimalista era laltra risposta? Un giorno ci chiederanno conto di tutto questo.
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Da sinistra: Emanuele Trevi e Paolo Mauri. |
4) -
La voce dellesperienza
Ripasso le letture che mi hanno affascinato in questo ultimo quarto di fine
millennio e scopro che la stragrande maggioranza arriva dalle periferie, compio questa
operazione dallumile posizione di chi cerca di leggere cinque libri alla settimana e
qualche volta ci riesce.
Sono romanzi che arrivano dalla periferia generica (la
fantascienza, il neo poliziesco) dalla periferia geografica (se mai lEuropa è stata
il centro) e anche dalla periferia letteraria (saggisti che sono passati al romanzo,
giornalisti che hanno inventato un genere confinante con la cronaca). Il realismo
fantastico nordamericano di Charyn e Behm, la intertestualità apocalittica di Farmer e
Dick, lantropologia letteraria di Galeano e Bayer o il giornalismo narrativo di
Walsh, Torndyke e Kapuscinsky, la storia come sovvertimento in Eco e in Chavarria, il neo
poliziesco dellarea latina con Vázquez Montalbán e Pennac, Vilar e McIlvaney (la
Scozia letteraria per questuomo è una regione vicina a Macondo); questi
meravigliosi romanzi davventura in cui la politica era lavventura finale di
Soriano e Bonasso; e infine i fumetti, ai quali bisogna riconoscere che hanno prodotto
alcuni dei migliori romanzi di questa fine millennio (V per vendetta di Moore, Favola
di Venezia di Pratt e il Batman di Miller).
E chiudo quasi senza desiderare una conclusione definitiva:
di fronte ai critici che spesso ti rivelano il finale del romanzo, questo assalto dalla
periferia, rivitalizza i generi e mantiene saldi e contenti centinaia di migliaia di
lettori.
(traduzione di Luigi Parodi)
Segue:
Le nostre approssimazioni di cui andare fieri
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