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"Ricercare", l’antipremio dei giovani di Roberto Carnero |
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"Ricercare" non è esattamente un premio letterario: si propone infatti come un "laboratorio di nuove scritture" il cui carattere sperimentale e piuttosto anti-establishment non favorisce molto l’accoglienza dei suoi autori presso le giurie dei premi tradizionali. Varato nel 1993 su iniziativa di Nanni Balestrini e Renato Barilli, i quali volevano celebrare il trentennale del Gruppo 63, e sponsorizzato dal Comune di Reggio Emilia, questo incontro, organizzato con cadenza annuale, si è proposto da allora come un appuntamento unico nel suo genere in Italia. La formula è sempre la stessa: un gruppo di narratori e poeti, per lo più giovani e inediti, selezionati da un comitato tecnico (il cui "nucleo" è costituito, oltre che da Balestrini e Barilli, anche da Ivano Burani e Giuseppe Caliceti), viene invitato a leggere i propri testi, da sottoporre in sala al giudizio istantaneo di critici ed esperti.
Ma Ricercare è frequentato anche dagli editori e dai direttori delle principali collane di narrativa italiana, alla ricerca di nuovi talenti e di autori emergenti da inserire nei propri progetti editoriali. Insomma: oltre che un luogo di elaborazione e discussione di un lavoro creativo, Ricercare è anche, per chi scrive, un’ottima vetrina in cui presentare i propri prodotti con la speranza che vengano notati da qualcuno. Ciò è accaduto nelle passate edizioni, perché è stato proprio a Ricercare che si è definita la poetica dei "cannibali" o "pulp" (Nove, Scarpa, Ammaniti, Pinketts, Galiazzo, ecc.). Comunque si valuti questo fenomeno letterario in termini di giudizio di valore, va riconosciuto che si tratta di una corrente con cui si è dovuto fare i conti in queste ultime annate di narrativa italiana. E proprio a Ricercare va il merito – o il demerito – di averne prodotto la costituzione, come mostrano i curatori dell’antologia Narrative Invaders (Torino, Edizioni Testo e Immagine, 2000, pagg. 226, lire 34.000), che cerca di tracciare un bilancio dei primi anni dell’iniziativa.
Non sempre però i criteri che presiedono alla selezione dei testi appaiono condivisibili. Si ha l’impressione che essi rimangano legati all’idea, già neo-avanguardistica, di una letteratura che deve essere a tutti i costi sperimentale e trasgressiva sul piano stilistico. La novità in quanto tale e spesso solo fine a sé stessa è l’elemento che si cerca nei testi. Tuttavia quello che era nuovo negli anni Sessanta, oggi appare un po’ obsoleto, e lo sperimentalismo finisce facilmente con lo scadere in mero formalismo. Del resto, sembra anche che non venga tenuto nella debita considerazione un aspetto fondamentale del circuito letterario: cioè il pubblico. Con autori, e – aggiungiamo – critici, così autocompiaciuti dei propri giochi letterari, la letteratura rischia di diventare un passatempo salottiero adatto soltanto agli addetti ai lavori, lasciando invece indifferente o addirittura respingendo i lettori potenziali. È così che durante l’edizione di quest’anno un testo come quello di Silvia Cassioli ha raccolto il plauso di Maria Corti e di molti dei critici presenti. Esso cercava di restituire il parlato dei suoi personaggi attraverso una mimesi totale, ma i risultati erano quanto meno discutibili: mancava del tutto di ritmo e di un benché minimo interesse narrativo da cui il lettore fosse spinto a proseguire nella lettura. In altre parole, un esercizio probabilmente preciso, ma totalmente freddo e insignificante.
Più validi sono apparsi invece altri testi, come quello del bolognese Lorenzo Marzaduri, un outsider ormai di 45 anni, che ha presentato un frammento di romanzo a cui il forte radicamento, anche letterario, nel proprio territorio d’origine conferiva un carattere di verità e di autenticità. O quello di Marco Broggi, che raccontava con uno sguardo lucidamente allucinato gli orrori televisivi e massmediali a cui siamo purtroppo assuefatti. O ancora il brano duro, stilisticamente efficace, letto da Beatrice Ferretti, che metteva in campo una narrazione non necessariamente autobiografica, ma in cui si aveva l’impressione di notare il coinvolgimento di una voce fortemente personale. Insomma: quest’ultima è la direzione che Ricercare potrebbe e dovrebbe sempre più assumere nelle future edizioni, se vuole continuare ad avere un ruolo propulsivo per far uscire la narrativa italiana dalla crisi cronica di lettori in cui versa da tempo. Roberto Carnero
Maggiani: «Ho venduto tanto»
«Certo, dal punto di vista della carriera è cambiato
tutto. Ero un autore che stampava 5.000 copie a libro, adesso ne tiro
40.000 in prima edizione. Il libro aveva cominciato a camminare da solo,
nel
«Già. Non è stata la storia standard di un premio andato bene. Tanto più che io il Campiello non pensavo di vincerlo, dopo l’assegnazione del Viareggio e dopo che l’anno precedente era stato premiato un altro libro Feltrinelli. E invece… Un po’ della fortuna forse è stata anche merito del mio atteggiamento. Sul palco, mi hanno messo in mano la targa di cristallo con l’argento massiccio e io l’ho gettata in aria. Tanta gente in Tv ha visto non uno scrittore (forse non lo sono mai stato), ma un "belinone", una persona che ha avuto fortuna e lo fa vedere con un gesto non di circostanza. Gli hanno voluto bene e hanno comprato il libro. Forse si è trattato anche di questo».
«Non ho consigli per nessuno, nemmeno per me. A un partecipante direi di stare ad aspettare, sempre che non ci siano trucchi. Quando mi sono accorto che c’erano dei giochi, mi sono tirato indietro. È successo nel ’99 con il Bancarella, che ho rifiutato pur avendolo vinto con La regina disadorna (Feltrinelli)». d.pic.
Barbero: «Non mi faccio illusioni»
«Da un lato il premio Strega è stato la realizzazione
delle mie speranze. Dall’altro ha significato la scoperta degli aspetti
meno
«Certo, uno scrittore desidererebbe sempre ottenere insieme l’apprezzamento della critica e il successo del pubblico, quindi delle vendite. Il mio secondo romanzo ha avuto delle belle recensioni, ma ha venduto poco. Però si impara presto, stando in questo mondo, a prendere le cose in modo filosofico. Proprio la "scuola" del premio Strega mi ha insegnato a conoscere le attese, i giochi delle case editrici e in certo modo a prenderne pacatamente le distanze, a non farmi troppe illusioni».
«I premi colgono le cose che ognuno di noi può riuscire a cogliere. Però sono preda di alcune questioni irrisolte. La prima è il contrasto fondamentale in letteratura fra l’effimero e il duraturo. Noi oggi abbiamo ben poco presente chi siano i più importanti autori viventi; fra cinquant’anni le idee saranno molto più chiare, chiarissime fra cento. Detto questo, i premi riescono comunque a mettere in luce il grosso delle cose buone prodotte. Sono, insomma, una fotografia ragionevole di un’annata letteraria, senza per questo che i giudizi debbano coincidere con quelli della storia». d.pic.
Erba: «I premi fanno decisamente bene»
«Li ho accolti tutti, per mancanza di preparazione e
per una certa
«Vengono incontro alla personalità del poeta che, per sua natura, è spesso ammalato di vanità e bisognoso di riconoscimenti. Il poeta (e parlo naturalmente per esperienza) è uno che ha sempre l’impressione di essere isolato, oscuro, mal compensato. I premi lo remunerano e inoltre rappresentano una conferma di cui possono tener conto gli antologisti».
«Mi ricordo la timidezza di Bartolo Cattafi, che ebbe vergogna, alla consegna di un premio degli anni Sessanta, di leggere i suoi versi (una delle liturgie dei premi di poesia). Li fece leggere a un altro, con risultati non molto felici». d.pic. |
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