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Dossier - Cattolici e Resistenza Costituzione
stravolta:
i cattolici non
possono tacere
di Annachiara Valle
Secondo il giurista cattolico Franco Pizzetti, la Carta
costituzionale dell’Italia nata dalla Resistenza rischia di essere
buttata a mare da una riforma che mette a rischio la democraticità
del sistema.
«Sono
colpito dal fatto che il mondo cattolico non reagisca di fronte a
questa miscela esplosiva». Della riforma della Costituzione
portata avanti dalla maggioranza di governo, il professor Franco
Pizzetti, docente di Diritto costituzionale all’Università di
Torino, parla con grande preoccupazione. E ricorda che «il
contributo dei cattolici alla stesura della Costituzione è stato
enorme, tanto più ricco grazie a cifre individuali diverse, legate da
una comune ispirazione di fondo: Moro per la costruzione dell’architettura
costituzionale, La Pira per la parte valoriale, Dossetti per la
lucidità con cui ha pensato il rapporto Stato-Chiesa, Mortati per l’organizzazione
dello Stato». Oggi invece – dice – è assordante il
silenzio dei «quadri dirigenti del mondo cattolico. Mi sembra
che non ci sia nulla che possa essere dato in cambio del silenzio o
dell’accettazione di questa riforma scandalosa».
Il grido di allarme, già lanciato da Pizzetti in ottobre alla
Settimana sociale dei cattolici italiani di Bologna, viene spiegato
con attenzione: «Le riforme sono necessarie per stabilizzare il
bipolarismo, mettere in asse il sistema reale del Paese con il quadro
istituzionale, approdare a una compiuta democrazia governante. Esse
non possono però essere oggetto né di scambio né di lotta politica.
Ed invece è esattamente ciò che sta accadendo».

Milano, 1945: Ferruccio Parri e un
generale alleato
mentre assistono a una sfilata (foto Artesi).
- Perché non condivide la riforma proposta dalla maggioranza?
«In primo luogo perché è legata a un patto di governo
stipulato all’interno dell’attuale maggioranza: si dice che la
riforma è cosa propria della maggioranza, come ripete il ministro
Calderoli. È quindi fatta nell’interesse degli elettori di una sola
parte. E la minoranza cosa fa? Va in esilio?».
- E da un punto di vista tecnico?
«Al suo interno è piena di incoerenze. C’è una parte
ipercentralistica, che pone l’interesse nazionale al centro di
qualunque competenza, mortificando lo spazio per le autonomie locali e
le regioni. Certo, si dice che l’interesse nazionale richiede
comunque il consenso del Senato, il quale però non ha nulla della
Camera rappresentativa dei governi locali che può diventare
contrappeso dell’interesse nazionale».

Alcide De Gasperi nel 1945, al tavolo
del governo dell’Italia liberata,
insieme a Pietro Nenni e Palmiro Togliatti (foto Farabola).
- Si tenta però di dare una risposta alla necessità di avere una
democrazia governante, il vero problema del sistema italiano...
«Rafforzare la democrazia governante è certamente
importante, ma va fatto irrobustendo i poteri del governo e del primo
ministro, ma anche rafforzando le garanzie costituzionali. Qui invece
siamo di fronte a un’overdose di espansione del ruolo dello Stato e
un’accentuazione del ruolo del primo ministro, ma manca ogni
attenzione all’altro elemento fondamentale della democrazia
governante, cioè le garanzie. La riforma non prevede sufficienti
garanzie né per l’opposizione, né per i cittadini; dice che il
presidente della Repubblica è garante per l’unità nazionale, ma
gli toglie tutti i poteri di arbitro del conflitto politico; deprime
le autorità di garanzia; incide sulla composizione della Corte
costituzionale senza irrobustirne i meccanismi di accesso, come invece
sarebbe necessario fare; non c’è una riga sul pluralismo e la
libertà di informazione, che in una democrazia governante sono
essenziali. Senza un sistema costituzionale che garantisca i cittadini
dalla prepotenza della maggioranza e assicuri le condizioni
sostanziali necessarie per rendere effettivo un meccanismo di
alternanza, rischiamo pericolosamente forme di cortocircuito della
democrazia, dove tutta la democraticità del sistema è riposta nell’andare
al voto ogni cinque anni. Ma anche le dittature sudamericane si sono
sempre fatte rieleggere!».

Monsignor Giuseppe Siri, allora vescovo
ausiliare di Genova,
insieme al primo sindaco della Liberazione del capoluogo ligure,
Faralli, e a un ufficiale alleato (foto F. Leoni).
- Cosa pensa della "devolution"?
«È un’altra cosa gravissima: la "devolution" va
a toccare i due settori – istruzione e sanità – che colpiscono i
diritti sociali. Oggi, insieme ai diritti di libertà, sono queste le
caratteristiche di cittadinanza. L’unità nazionale non è più
quella del Risorgimento – parlare la stessa lingua, avere la stessa
cultura o i carabinieri con la stessa divisa sul territorio nazionale,
fruire delle stesse leggi o avere lo stesso sovrano – ma è qualcosa
di più: avere la stessa cittadinanza, gli stessi diritti e doveri
sociali. In un sistema di governo fortemente articolato è fisiologica
una quota di differenziazione. Perciò saggiamente il titolo quinto
della Costituzione dice che restano allo Stato i livelli essenziali,
cioè la definizione della cittadinanza unitaria in materia di diritti
sociali e configura le materie che toccano i diritti sociali come
materie a competenza concorrente tra lo Stato e le Regioni. Con la
riforma, invece si introduce la "devolution" e cioè l’assegnazione
in via esclusiva della competenza in materia di sanità e di
istruzione alle sole Regioni. È vero che resta il potere dello Stato
di definire i limiti essenziali e che sono attribuite anche allo Stato
nuove competenze in queste materie, ma il fatto stesso di far passare
la competenza delle Regioni da competenza ripartita con lo Stato a
competenza esclusiva di questi enti va a colpire proprio il concetto
stesso di cittadinanza per la parte, oggi fondamentale, che attiene ai
diritti sociali. Del resto è proprio questo che, anche
simbolicamente, si vuole. Ma questo mette in crisi il principio della
Repubblica unica e indivisibile e contrasta con i fondamenti stessi
della cultura giuridica e dei valori di fondo su cui poggia la nostra
Costituzione».

Il socialista Giuseppe Saragat all’indomani
della Liberazione
(foto Farabola).
- Come funziona questa nuova architettura costituzionale?
«Non può funzionare. È questo il pericolo più grave,
perché può spingere a un forte accentramento del potere politico
nelle mani del governo e del primo ministro. Il quadro di fronte al
quale ci troviamo è gravissimo e i cattolici non possono
tacere».
Vittoria Prisciandaro
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