Servizio
speciale:
Quel che resta di Bisanzio Il
Tibet della Cristianità
di Piero Pisarra
«Ci sono luoghi al mondo in cui la natura sembra offrirsi un
santuario, con tutta la ricchezza del simbolismo primordiale: centro,
asse, bellezza paradisiaca delle acque. E l’Athos è uno di questi»,
ha scritto il teologo Olivier Clément.
Monte Athos, Aghion Oros, Santa Montagna. Da più di un millennio
il promontorio orientale della penisola Calcidica - secondo la
mitologia, fu scagliato in mare dal gigante Athos in collera con
Poseidone - richiama monaci e viandanti dell’assoluto. Dell’Athos
parlano, nelle veglie attorno al fuoco del grande inverno siberiano, i
personaggi di Leskov. All’Athos sogna di andare il Pellegrino russo,
autore dei celebri Racconti. E all’Athos quando le
convulsioni della storia si fanno insopportabili, quando le guerre e l’odio
lacerano l’umanità si rivolgono le speranze del mondo ortodosso.
Perché l’Aghion Oros non è soltanto un luogo di aspra bellezza,
rifugio ideale di asceti in fuga dalle lusinghe del secolo: è anche,
come vuole la leggenda, il "giardino della Vergine",
precluso a ogni altro volto di donna. Un luogo di battaglie spirituali
e di pace, di hesychia, la pace interiore che nasce dalla
ripetizione incessante della "preghiera di Gesù" («Signore
Gesù Cristo, figlio di Dio, abbi pietà di me»), secondo il ritmo
della respirazione.
Alla frontiera del mondo greco e del mondo slavo, unito dal
Mediterraneo ai patriarcati orientali e alla cattolicità latina, l’Athos
- aggiunge Clément - sembrava predestinato «a diventare il cuore di
una Chiesa che si definisce soprattutto come un mistero di
deificazione». Ed è così che è stato visto da intere generazioni
di credenti.

L’imponente monastero russo di Aghiou
Panteleimonos,
situato sul versante occidentale della penisola vicino al mare.
Cuore dell’ortodossia Tibet della cristianità: queste
definizioni possono farci sorridere, ma esse hanno affascinato i
viaggiatori dei secoli scorsi, gli antenati di Bruce Chatwin e di
William Darlymple, che a dorso d’asino - coi loro pesanti bagagli -
venivano qui a respirare una dose di esotismo, senza le fatiche di un
viaggio nella lontana India. Nel 1834, sir Robert Curzon concluse il
suo viaggio tra i monasteri d’Oriente alla ricerca di antichi
manoscritti, qui all’Athos (si veda il suo pittoresco resoconto: Visits
to Monasteries in the Levant, Century, Londra, 1983). E quasi un
secolo dopo, nel 1926, il giovane Robert Byron, omonimo del celebre
lord, vi fece due lunghi soggiorni. Curzon comprò per poche sterline,
ingannando i monaci, manoscritti antichissimi. Byron, più
disinteressato o squattrinato, si accontentò di raccontare il
paesaggio umano e spirituale dell’Athos in un libro che avrebbe
influenzato in maniera durevole i travel writer delle
generazioni successive (The Station, tradotto sciattamente da
Bompiani nel 1952, col titolo Monte Athos). Ma la descrizione
più accurata della vita sulla Santa Montagna, prima che i germi della
modernità - come lamenta l’autore - introducessero anche qui «gli
agi e le usanze mondane», si deve alla penna e al pennello di
Fortunato Perilla.
Sfoglio con emozione il Monte Athos del pittore italiano
(Parigi e Salonicco, 1926), ricco di xilografie, corredato di
acquerelli: monaci dalla lunga barba, con il tradizionale copricapo
(lo skufos) oppure con l’abito angelico, il megaloskima
dei monaci professi; volti levigati dagli anni, ma da cui emana una
luce interiore come nei santi delle icone; novizi coi capelli raccolti
a crocchia, secondo l’uso orientale. Perilla non trascura alcun
dettaglio: gli affreschi antichi, le reliquie, i sigilli, le simandre,
cioè le tavole di legno sulle quali ancora oggi i monaci battono
ritmicamente per invitare alla preghiera o al riposo, le fiali,
cioè i chioschi con al centro una fontana in cui è così gradevole
prendere il fresco nelle sere d’estate.

Con la campana i monaci vengono chiamati
ai Vespri nel cellion
del monastero dell?Annunciazione nei pressi di Karyes.
Sono passati circa ottant’anni eppure quel libro sembra parlare
di oggi. Perché se anche qui trillano i cellulari, se le jeep e le
Range Rover hanno sostituito gli asini e i muli, se i monaci non
disdegnano Internet e le autostrade telematiche, l’Athos è pur
sempre un angolo di Bisanzio sopravvissuto per miracolo agli assalti
della modernità. Nulla sembra distinguerlo dall’ambiente
circostante, dal resto della penisola Calcidica: qui ritrovi la stessa
vegetazione, querce, castagni, cipressi, eucalipti, ulivi, aranci, gli
stessi odori di origano e di basilico, la luminosità accecante, i
riflessi dorati sull’azzurro dell’Egeo. Ma non appena si arriva
nel porticciolo di Dafní sembra di essere in un altro mondo, in un’altra
dimensione. E non solo perché si torna indietro di tredici giorni,
calendario giuliano oblige. «Qui il tempo sembra essere fatto di una
sostanza differente. E il mondo dei vivi riproduce con tanta
precisione quello dei morti e degli antenati che i monaci danno
talvolta l’impressione di essere icone animate, ombre di ieri
smarritesi nel nostro presente», ha scritto Jacques Lacarrière che
all’Athos ha dedicato uno dei suoi libri più belli (L’été
grec, 1975).

Classico paesaggio a macchia
mediterranea dietro la cappella
dell’arsenale di Zografou, vicino alle coste del mare Egeo.
Le icone animate, i primi anacoreti, scelsero questi luoghi, le
grotte a strapiombo sul mare, già nel VII e nellVII secolo, quando l’impero
bizantino era lacerato dalla controversia iconoclasta. Ma il primo
eremita venerato dai monaci della Santa Montagna è Pietro, un ex
soldato che nelle caverne dell’Athos trascorse cinquantatré anni in
solitudine, nel IX secolo. A Pietro l’Atonita apparve in sogno -
così racconta la Vita scritta dal monaco Nicola nel X secolo -
la Theotokos, la Madre di Dio. «La tua dimora sarà sul Monte
Athos che su mia richiesta ho ricevuto in eredità da mio figlio»,
gli disse la Vergine. «Là quelli che abbandoneranno i turbamenti
mondani e abbracceranno le cose spirituali, secondo le loro forze, e
invocheranno il mio nome in verità, fede e disposizione d’animo
trascorreranno la vita presente e guadagneranno la vita futura per
mezzo di opere gradite a Dio». Secondo la profezia, il Monte Athos si
sarebbe riempito di monaci da un capo all’altro. E così avvenne.
Non lontano dalle caverne degli eremiti, sorse il primo monastero,
fondato da Atanasio, un greco di Trebisonda, amico del futuro
imperatore Niceforo Foca.

Il katholikon di Dochiariou,
monastero della costa meridionale.
La prima pietra della Grande Lavra fu posta nel 963. In pochi
decenni, sulle tracce di Atanasio l’Atonita, arrivarono, da ogni
regione dell’Oriente cristiano e poi anche dall’Occidente
centinaia di uomini: greci, georgiani, slavi del Sud, italiani. Lungo
la costa, sorsero i monasteri di Vatopediou, Zografou, Filotheou,
Dochiariou, Xenophontos e Iviron. Serbi e russi arrivarono più tardi,
tra l’XI e il XII secolo. Con la benedizione di patriarchi e
imperatori, era nata una curiosa Repubblica monastica, uno Stato
federale, senza esercito, ma sotto la protezione della Vergine.
Accanto ai venti monasteri maggiori o lavre, furono fondate numerose
dipendenze, che ospitavano comunità più piccole. Tutte le forme di
vita monastica trovarono rifugio nel giardino dell’Athos da quella
eremitica a quella cenobitica e alla idiorritmica, secondo la quale
ogni monaco organizza in maniera indipendente la propria vita, con
pochi obblighi comunitari. Senza dimenticare i "folli in
Cristo" della tradizione russa, dal comportamento che alle
cosiddette persone normali può sembrare stravagante, ma che è il
segno di una saggezza più alta (quella delle beatitudini). E i
sarabaiti, i monaci girovaghi, a volte indicati a cattivo esempio,
nella letteratura spirituale, per la loro irrequietezza.

Chiesetta presso il villaggio di Karyes.
Arrivarono anche i maestri dell’arte bizantina: nel XIV secolo,
Manuele Pansélinos e i suoi discepoli affrescarono le chiese di
Vatopediou, Chilandari e Karyes, nello stile della cosiddetta
"scuola macedone", conciliando ieraticità e umanità nella
raffigurazione dei personaggi e degli episodi del Vangelo. Poi, tra il
XV e il XVI secolo, si impose lo stile cretese, più austero e di una
religiosità tutta interiore. Ai grandi cicli della "scuola
macedone", gli artisti di questa nuova corrente - il cui
iniziatore fu il grande Teofane di Creta - preferivano composizioni
più vicine, nella tecnica e nello spirito, alle icone o alle
miniature destinate a favorire la contemplazione e la preghiera. Sull’Athos
sorsero vari atelier, laboratori iconografici che nulla avevano da
invidiare alle botteghe dei maestri italiani. E anche per la vita
spirituale cominciò una fase nuova.
Gli uomini che avevano scelto il nascondimento, che in alcuni casi
avevano abbandonato il potere o rinunciato al mestiere delle armi, che
avevano lasciato affetti e amicizie, cantavano nel giardino della
Vergine, in liturgie interminabili e affascinanti, le lodi al Signore
del cosmo e della storia, il Pantocrator di cui vedevano, alla luce
tremula delle candele, la figura maestosa negli affreschi o nei
mosaici delle loro chiese. Vita angelica: così la tradizione
definisce il monachesimo. Ma quella dell’Athos era una vita dura,
povera, essenziale, nel rispetto della sobrietà e della vigilanza, la
nepsi, che i Padri consideravano come valore fondamentale, per
non lasciarsi sorprendere dal nemico in agguato e non essere vinti
dalle passioni.
Vita di lotta spirituale e di penitenza, perché - come scrisse
Gregorio Palamas in un encomio di san Pietro l’Atonita - «quando la
mente si leva al di sopra di tutte le cose sensibili ed emerge dal
diluvio turbinoso che le circonda e osserva l’uomo interiore, e vede
la ributtante maschera derivata dalla caduta, cerca di lavarla con l’afflizione».
Testimoni dell’unità e dell’universalità dell’Ortodossia i
monaci atoniti hanno salvato in almeno due occasioni, secondo Olivier
Clment, la Chiesa ortodossa: nel XIV e nel XVIII secolo, al momento
della polemica sull’esicasmo che scosse l’Oriente cristiano e all’epoca
dell’Illuminismo quando la fede sembrava minacciata dalla dea
Ragione.

Nelle cappelle del monte Athos è
bandito l’uso della luce elettrica,
perciò i riti sono celebrati rigorosamente a lume di candela.
Nato in ambiente monastico, l’esicasmo (da hesychia)
trovò sull’Athos il terreno più fertile. Non era soltanto una
corrente teologica o un movimento che metteva l’accento sulle
"energie divine" all’opera nel mondo e che trasfigurano il
creato, bensì una via alla contemplazione. Un "metodo"
basato sul respiro e caratterizzato da una particolare postura del
corpo, la testa raggomitolata tra le gambe. E che anche per questo si
attirò il sarcasmo di un teologo come il monaco calabrese Varlaam di
Seminara. «Omfalolatri, adoratori dell’ombelico», fu il
giudizio sprezzante e superficiale. Gregorio Palamas (1296-1357), che
era stato monaco dell’Athos prima di essere eletto arcivescovo di
Tessalonica, definiva la vera hesychia come «il ritorno e la
conversione della mente a sé», cammino di unità e di pacificazione
interiore, illuminato dalla grazia. Il contrario, insomma, del
ripiegamento narcisistico su sé stessi o sul proprio ombelico.

Un Cristo (Colui che domina ogni cosa)
in stile vagamente occidentale,
dipinto nel XVIII secolo sulla cupola della cappella del monastero
di Filotheou. Sull’aureola del Figlio di Dio in gloria, circondato
dagli angeli, è scritto "Ho ôn", vale a dire "Colui
che è":
sintesi del messaggio biblico e della filosofia greca.
L’esicasmo segnò in profondità la vita del monachesimo atonita.
E i suoi frutti, dopo periodi di crisi o di stagnazione, si
manifestarono nel XVIII secolo, in tutto l’Oriente cristiano, in
quella che fu chiamata l’epoca del "rinnovamento filocalico".
Sull’Athos Macario di Corinto e Nicodemo l’Agiorita compilarono
l’antologia che avrebbe rivelato all’Europa nel clima dell’Illuminismo
la ricchezza della tradizione ascetica e mistica dell’Oriente
cristiano, dai Padri del deserto ai grandi "teorici" dell’esicasmo
Gregorio il Sinaita e Gregorio Palamas.
Stampata a Venezia nel 1782, la Filocalia ebbe un impatto
fortissimo nel mondo slavo, grazie alla traduzione di un grande
maestro spirituale, lo starec Paisij Veli kovskij. La
"vita angelica" era, dunque, nient’altro che filocalia,
amore della bellezza. Al di là del colore, delle lunghe liturgie e
dei riti che tanto colpivano i viaggiatori occidentali, l’Athos
aveva conservato per secoli, non come un tesoro inaccessibile ma come
pratica di vita ascetica, la tradizione dei santi padri, l’insegnamento
di Evagrio, di Massimo il Confessore, di Simeone il Nuovo Teologo.
Così come aveva custodito gelosamente la tradizione dell’arte
bizantina e ne aveva tramandato i canoni in un manuale preziosissimo
per gli iconografi e gli studiosi di iconografia: l’Ermeneutica
della pittura di Dionisio da Furnà (XVIII secolo).
Ma forse a queste due epoche, all’esicasmo e al rinnovamento
filocalico, bisogna aggiungere il periodo della grande glaciazione
comunista, quando anche sull’Aghion Oros si preparava la rinascita
dell’Oriente cristiano, con i santi anonimi che qui custodivano i
tesori spirituali della Santa Russia. O l’epoca immediatamente
precedente la rivoluzione sovietica, quando al monastero di San
Panteleimonos viveva, facendo il mugnaio, un uomo semplice, senza
grande cultura, ma che fu uno dei grandi mistici del XX secolo:
Silvano dell’Athos. Un uomo che bruciava di compassione per i suoi
simili e per tutte le creature. E che anche nel buio della tentazione
o della prova diceva: «Fratello mio, chiunque tu sia, per quanto
grande sia il tuo peccato, per quanto oscura sia la tua tenebra, tieni
il tuo spirito agli inferi, e non disperare!».

Due monaci visitano il laboratorio di un
pittore nella scete (struttura
separata ma dipendente da un monastero ufficiale) di Aghia Anna.
Nato in uno sperduto villaggio della provincia di Tambov, in
Russia, nel 1866, Silvano visse per quarantasei anni sul Monte Athos,
fino alla morte nel 1938. «Fin dalla mia infanzia amavo il mondo e le
sue bellezze», scrisse nei suoi quaderni spirituali. «Amavo i
boschi, i verdi giardini e i campi, amavo guardare le nuvole
splendenti e vederle correre nell’azzurro cielo, e tutto il mondo di
Dio creato in modo così meraviglioso. Ma da quando ho conosciuto il
mio Signore, è cambiata ogni cosa dentro di me, non desidero più
contemplare questo mondo, ma l’anima mia è attratta incessantemente
verso quel mondo dove si trova il Signore». Per tutta la sua vita, l’ex
contadino russo, divenuto uno starec amato e ascoltato, volle
essere testimone dello Spirito, «perché lo Spirito Santo è la vita
eterna».
Quanti monaci come Silvano, quante altre icone viventi hanno
percorso i sentieri dell’Athos? Quante altre storie di santità
celano le grotte e i monasteri dell’Aghion Oros? Quanti altri uomini
spirituali, veri pneumatikoi, praticano la preghiera di Gesù,
alla ricerca dell’hesychia il silenzio del cuore e dei
pensieri, la serenità piena che nasce dalla lotta contro le passioni
e che non è indifferenza al mondo, ma una forma più alta di
compassione?

Affresco del monastero di Filotheou
raffigurante un episodio dell’Apocalisse:
il Verbo di Dio su un cavallo bianco guida il suo esercito e uccide,
con la spada che gli esce dalla bocca, i seguaci della Bestia
e del falso profeta (Ap 19,11-21). Tutte le mura dell’atrio
sono rivestite di scene tratte dall’ultimo libro del Nuovo
Testamento.
Ora, dopo il crollo dell’impero sovietico, l’Athos conosce un
fase di rinnovamento. Progressivamente, i monasteri hanno abbandonato
il sistema idiorritmico, all’origine di molte contraddizioni e di
abusi, per la vita cenobitica. Sotto l’impulso dei monaci di
Stavronikita, Iviron, Simonos Petra, hanno riscoperto le radici
autentiche della vita monastica, lo studio dei Padri, il valore della nepsi
e dell’hesychia. Mai interrotti, i legami con i Paesi di
quello che fu il blocco comunista sono ora più frequenti. E anche dai
luoghi più lontani della diaspora ortodossa America, Australia
arrivano nuovi candidati alla vita monastica, nuovi postulanti. L’Athos
vive una nuova primavera. Eppure, di tanto in tanto riaffiora la
tentazione della chiusura, dell’integralismo della conservazione
gelosa dell’identità ortodossa. Come nel 2003, quando alcuni monaci
di Esfigmenou, ribellandosi al Patriarca di Costantinopoli, giudicato
troppo aperto, troppo debole verso l’Occidente, issarono la lugubre
bandiera: «Ortodossia o morte!».
Battaglie di retroguardia? Scaramucce di una piccola minoranza?
Manifestazioni di "zeloti", nemici del dialogo ecumenico,
difensori di un ritualismo senz’anima? Certamente. Nella stragrande
maggioranza, i monaci disapprovano questo fanatismo, anche se la
diffidenza per l’altro in particolare per i latini (fratelli sì, ma
eretici ) è ancora forte. Ma è inutile applicare, a una realtà
così complessa, troppo riduttive categorie di giudizio, schemi
politico-teologici che non reggono alla prova dei fatti.
«L’Athos sconcerta gli occidentali», scrive Olivier Clément
nei Dialoghi con Atenagora. «E talvolta di esso si nota soltanto l’aspetto
pittoresco o le ombre: la sporcizia, le celebrazioni dall’orario
indefinito, la tentazione dell’omosessualità. Ma questo operaio che
lavora al mulino è forse uno starec Silvano. La santità non
si vede. Tuttavia essa riempie certi luoghi, e l’anima attenta
scopre subito che il silenzio dell’Athos è saturo di santità».
Saturo di santità e di bellezza.
Piero Pisarra

Un particolare della cattedrale del Protaton
a Karyes.
La
Repubblica dei santi monaci
Sulla
storia plurimillenaria del Monte Athos sono stati scritti
fiumi d’inchiostro e pubblicati migliaia di libri. Monte
Athos. Porta del cielo di Kiros Kokkas (San Paolo, pp.
270, € 75,00) ha però una peculiarità che gli va
riconosciuta: parla con le immagini. Kiros Kokkas ha affidato
più all’obiettivo della sua macchina fotografica che alla
penna, il compito di spiegare che cosa sia l’esperienza
monastica vissuta nella Santa Montagna. Nota soprattutto per
essere rigorosamente vietata alle donne, la Repubblica
monastica del Monte Athos, abitata da circa 1.400 monaci
ortodossi, si trova nella propaggine più orientale della
penisola Calcidica, in Grecia. Il volume illustra, con
artistiche e suggestive immagini, la vita delle venti
comunità tutt’oggi attive. Ne documenta inoltre la storia
che, dalle origini ai nostri giorni, ha dovuto fare i conti
con regimi spesso ostili: dalla dominazione turca dopo la
capitolazione di Tessalonica nel 1430 ai regimi comunista e
nazista. L’attuale situazione giuridica del Monte Athos è
stabilita dalla Costituzione greca nella cui recente versione,
del 1975, è detto che «la penisola è, in conformità alla
sua antica condizione privilegiata, un autonoma dello Stato
greco, rimanendo la sovranità di quest’ultimo intatta su di
essa... In termini spirituali è sottoposta alla diretta
giurisdizione del Patriarca ecumenico di Costantinopoli... Il
Monte Santo è amministrato, conformemente alla sua
condizione, dai venti santi monasteri, tra i quali è divisa l’intera
penisola, essendo la terra non espropriabile». |
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