Il giorno dopo l’arresto del boss Pietro Aglieri – era il 7
giugno 1997 – gli uomini del clan si sentivano smarriti. «Noi
abbiamo dormito insieme, rischiato la vita insieme», diceva Ino
Corso, e non sapeva di essere intercettato da una microspia della
Polizia, «abbiamo preso le revolverate. Lui mi ripeteva: tu ti devi
salvare. Sono momenti della vita che pure che vivi cent’anni non li
dimentichi». I picciotti di Aglieri continuavano comunque a svolgere
gli affari di sempre. «Un giorno arrivò un biglietto», ricordava
Corso. «A tale punto, tale orario, il cugino del pentito Contorno».
Era la scena di un omicidio: «Siamo andati con Pietro, lui girò la
tenda e si trovò davanti a quello, con la bambina in braccio. Si
bloccò. E tornammo in macchina. Abbiamo fatto duecento metri, poi mi
ha detto: se io gli uccidevo la bambina diventavo onesto? Siccome non
l’ho uccisa, adesso sono un cornuto di due lire, sono un debole. E
si mise a ridere».
Intanto, in Tv scorrevano le immagini dell’arresto di Aglieri,
padrino della Cupola mafiosa. Ino Corso esclamò: «Ma lui il coraggio
lo aveva trovato nel Signore. Mi disse: il Signore deve darmi la guida
giusta, la prudenza di affrontare le cose, di tutto il resto non mi
interessa. Mi dispiace per voi, disse anche questo, vi sono di danno,
tanto vale che mi vado a presentare». Il discorso finì lì, la cosca
fu poi smantellata qualche mese dopo da un blitz della Polizia.
Aglieri era ormai in carcere, al 41 bis. Aveva chiesto di iscriversi a
un corso di teologia, aveva avviato una corrispondenza con alcuni
sacerdoti, ma ha sempre rifiutato qualsiasi offerta di collaborazione
con la giustizia.
Durante la latitanza (durata dal 1989 al 6 giugno ’97) Pietro
Aglieri ha incontrato alcuni preti, a cui ha confidato il suo
travaglio interiore. Sino a oggi si è saputo solo di padre Mario
Frittitta, il carmelitano che fu arrestato per favoreggiamento dalla
Procura di Palermo, condannato in primo grado ma poi assolto dalla
Corte di appello e dalla Cassazione. Adesso, tre di quei sacerdoti
hanno accettato di raccontare a Jesus la loro esperienza.

Il luogo della strage di Capaci (23
maggio 1992)
(foto Periodici San Paolo/N. Leto).
Ne è emersa una storia inedita che ha come protagonisti Aglieri e
altri mafiosi a lui vicini che avviarono un dialogo sotterraneo con la
Chiesa: «Ci fu un momento, dopo le stragi Falcone e Borsellino, dopo
l’omicidio di don Pino Puglisi», racconta padre Giacomo Ribaudo, «in
cui una frangia dell’organizzazione Cosa nostra cercava una via d’uscita.
Era il ’94, Pietro Aglieri, allora latitante, mi chiese di
incontrarlo. Accettai. Ricordavo quel giovane che aveva frequentato il
liceo del seminario di Monreale. Lui aveva letto il mio appello a
Totò Riina: "Carissimo Salvatore, Dio ti ama e non si rassegna a
perderti", scrivevo in una lettera aperta. "Non mi importa
di sapere se tu continui o no a essere il comandante di Cosa nostra in
Sicilia né a me preme che tu possa pentirti solo per rivelare nomi e
fatti di altri. Tutto passa. Ciò che resta è l’amore di Dio. Se
lasci morire in te ciò che di vecchio c’è nel tuo cuore,
rinascerai non solo tu ma l’Italia intera"».
Il parroco della Magione e Pietro Aglieri si incontrarono: «Era
amareggiato per l’omicidio di padre Pino Puglisi», ricorda Ribaudo.
«Rifletteva sull’appello di Giovanni Paolo II alla conversione. Mi
disse: molti uomini d’onore stanno meditando sulle parole del Papa.
Siamo pronti a consegnarci, chiediamo allo Stato di poter iniziare una
vita nuova, a condizione di non essere obbligati ad accusare i nostri
compagni».
In quei giorni, accadeva qualcosa di simile anche in Campania, un
gruppo di camorristi contattò monsignor Antonio Riboldi. «Chiamai il
vescovo di Acerra», dice Ribaudo, «pensammo all’organizzazione di
una tavola rotonda sul dissenso all’interno della mafia e della
camorra». I due sacerdoti rivelarono pubblicamente la proposta dei
boss. La notizia fece scalpore. «Ne parlai anche con il cardinale
Pappalardo e con l’autorità giudiziaria», prosegue Ribaudo, «ma
mi trovai di fronte a un muro spesso così. L’unica preoccupazione
della Magistratura sembrava quella di sapere chi avessi incontrato, e
dove. Non feci il nome di Aglieri né degli altri mafiosi che mi
avevano chiesto di parlarmi. Qualche giorno dopo, Aglieri mi mandò
una lettera. Ribadiva la volontà di cambiare espressa da una frangia
della mafia, mi parlava del pentimento cristiano. Non credo fosse un
tentativo di furbizia. Passarono i giorni, mi resi conto che né lo
Stato né la società civile né la Chiesa volevano costruire un ponte
verso questi uomini intenzionati a cambiare vita. Aglieri lo capì. E
rivolle indietro la lettera».

Manifestazione in ricordo dei giudici
Falcone e Borsellino
(foto Periodici San Paolo/M. Palazzotto).
Gli uomini della mafia restarono in latitanza. L’organizzazione
era squassata dalle inchieste giudiziarie, ma soprattutto da un vento
di radicali riforme interne volute dal nuovo capo, Bernardo
Provenzano, che in quei giorni predicava il ritorno alla
"normalità": «Vi benedica il Signore e vi protegga»,
concludeva così ogni lettera in cui dava ordini ai suoi
collaboratori.
Aglieri, latitante a Bagheria, alle porte di Palermo, continuava
ufficialmente a essere il capo di un "mandamento"
importante, quello di Santa Maria di Gesù. Era il
"figlioccio" di Provenzano.
Ma il suo travaglio interiore aumentava. Decise di confrontarsi con
un prete. «Quel giovane chiedeva solo l’accoglienza della Chiesa e
della Parola di Dio», racconta padre Mario Di Lorenzo, parroco del
Santissimo Sepolcro di Bagheria. «Lasciamo stare il termine
pentitismo, la Chiesa deve saper rispondere con coraggio alle
richieste di chi vuole cambiare vita. Se solo lo Stato l’avesse
capito. E invece quei preti si trovarono a operare nell’illegalità.
Sì, è vero, Mario Frittitta è stato assolto dalla giustizia, ma
quanto ha patito? Tutti ricordano ancora la foto del sacerdote in
manette che esce dalla Squadra mobile di Palermo. Non ebbe certo
subito il sostegno di tutta la Chiesa: non sono forse queste condanne?».
Padre Di Lorenzo racconta così il travaglio di Aglieri: «Non era
solo un fatto personale, quel giovane aveva scoperto il suo peccato e
cercava di coinvolgere altri nel percorso intrapreso. Io penso che
questo fosse il segno vero del suo recupero. Lui aveva un’idea
precisa al proposito: non avrebbe mai denunziato nessuno, piuttosto
voleva farsi strumento di profezia per gli altri, nella misericordia».

L’arresto del boss Aglieri (foto
Periodici San Paolo/M. Palazzotto).
L’arresto, così come l’assoluzione di padre Frittitta, hanno
aperto un grande dibattito all’interno della Chiesa siciliana. «La
conversione non può essere ridotta a fatto intimistico», ha ribadito
una commissione di saggi nominata dal cardinale di Palermo, Salvatore
De Giorgi, «ma esige il dovere della riparazione: nel caso del
mafioso, la conversione non potrà certo ridare la vita agli uccisi,
ma comporta comunque un impegno fattivo affinché sia debellata la
struttura organizzativa della mafia, anche con l’indicazione all’autorità
giudiziaria di situazioni e uomini, che se non fermati in tempo,
potrebbero continuare a provocare ingiustizie».
I "saggi" stilarono un vero e proprio documento sulla
"pastorale per i mafiosi": lecito per un sacerdote andare a
trovare un latitante, «ma solo per una volta e per portargli conforto
e dargli coraggio nell’avviare l’iter sociale della conversione.
Andare più volte, assume i connotati di una "cappellania"
del tutto indebita». Il documento affrontava anche il tema della
Messa celebrata nel covo del latitante: «L’Eucaristia non può mai
essere ridotta a servizio religioso, sganciato dalla conversione».
«La Chiesa deve accogliere i peccatori, fissare paletti serve a
poco. A volte una piccola parola può portare a grandi conversioni»:
anche padre Lillo Tubolino, da 39 anni parroco della "Sacra
famiglia" di Palermo, ha incontrato Aglieri durante la latitanza,
e oggi è impegnato con la sua comunità in un difficile lavoro
pastorale all’interno delle carceri. «La mafia non dà spazio all’animo
dei suoi uomini», dice, «e la Chiesa deve offrire una via d’uscita».

Padre Mario Frittitta al momento dell’arresto
nel 1997,
quando venne accusato di favoreggiamento nei confronti
di boss mafiosi (foto Periodici San Paolo/M. Palazzotto).
Era il Natale del ’96 quando una persona si presentò nella
parrocchia di don Lillo: «Aglieri aveva chiesto di me», ricorda il
parroco, «mi fece avere un bigliettino, c’era scritto: "Ho
saputo del bene che fa". Padre Mario Di Lorenzo mi disse che lui
aveva già incontrato Aglieri, che lo aveva pure confessato. Mi
rassicurò sul suo percorso spirituale». Così anche don Lillo
arrivò nel covo del boss, a Bagheria: «Lo abbracciai. Poi parlammo
della Parola di Dio. Lo confessai, gli diedi la Comunione. Lui citò
un brano dell’Apocalisse: "Chi ha sbagliato deve pagare",
e mi accennò alla possibilità di costituirsi». Un secondo incontro
si tenne nella Pasqua del ’97: «Non c’era né una pistola né un
coltello in quel rifugio. Continuammo a parlare solo delle cose di
Dio, stavamo nella cappelletta che aveva preparato con le sue mani. Io
gli regalai un libro, In carcere ma liberi si intitola, edito
dalle Paoline, parla delle esperienze di alcuni detenuti del carcere
di Napoli e del loro incontro con Dio. Aglieri mi diceva: le
sofferenze servono a purificarsi».
Intanto, in quei mesi, anche padre Mario Frittitta aveva iniziato a
frequentare il covo del latitante: di lui i poliziotti sapevano
attraverso le microspie; era Ino Corso a tenere i contatti.
«Aglieri lo arrestarono tre giorni prima che si consegnasse»,
rivela don Lillo, «l’avrei dovuto accompagnare io dal vescovo, con
la mia auto. Il giorno convenuto, qualche ora prima di partire da
Bagheria, avrei telefonato in Curia, poi saremmo andati. Era tutto
deciso. Aglieri mi ripeteva: padre, a me interessa la giustizia, l’amore
di Dio. Per lui, consegnarsi era come riconciliarsi con Dio».

La cappella interna al rifugio di Aglieri
(foto Periodici San Paolo/M. Palazzotto).
Quando i giornali parlarono di un prete che era andato a trovare
Aglieri durante la latitanza, come emergeva dalle indagini, don Lillo
si presentò subito in Procura: «I magistrati mi trattarono come
fossi un correo degli uomini della mafia. Evidentemente, il loro punto
di vista non era il mio. Poi, però, dopo l’interrogatorio,
incontrai il procuratore Gian Carlo Caselli: mi chiese, padre perché
è andato da Aglieri? Gli citai la lettera di san Giacomo: se si
toglie la radice del male dal cuore di un uomo, questi può diventare
un apostolo. Caselli capì il senso della mia opera, ribadì il suo
ruolo di magistrato, ma mi ringraziò per ciò che avevo fatto».
È stato durante il Giubileo del 2000 che i cappellani delle
carceri siciliane hanno cercato di riprendere le fila di quel dialogo
con i mafiosi, facendo intravedere anche a loro la prospettiva del
perdono della Chiesa. E veniva indicata persino una via possibile: la
riconciliazione con la "parte offesa" attraverso il
risarcimento ai familiari delle vittime. Ma è ancora una strada
tortuosa, la Chiesa siciliana resta lacerata al suo interno da un
dibattito mai risolto sulla pastorale antimafia.
«La Chiesa non deve avere paura», dice don Lillo Tubolino, «il
coraggio delle parole nuove è nel martirio di Pino Puglisi. A chi
aveva incendiato il portone della parrocchia, il sacerdote di
Brancaccio disse dall’altare: siete figli di questa comunità, qui
siete stati battezzati, le porte della chiesa restano aperte, vi
aspetto. Puglisi tuonava contro la mafia struttura di peccato, ma
aveva dolci e vigorose parole di speranza per i mafiosi, che voleva
recuperare al Vangelo».

Nel "covo segreto" furono
trovati anche libri, riviste e
immagini religiose (foto Periodici San Paolo/M. Palazzotto).
Dal carcere, Pietro Aglieri continua a mantenere un dialogo
epistolare con padre Ribaudo e padre Tubolino. «Ha sempre voluto
tenere distinto il percorso spirituale da quello processuale», dice
il suo avvocato, Rosalba Di Gregorio. Di recente, la Corte di
Cassazione ha condannato Aglieri nella schiera dei mandanti della
strage Borsellino. «Avremmo potuto chiamare a testimoniare davanti ai
giudici i sacerdoti con cui era venuto in contatto, ma non l’abbiamo
fatto», prosegue l’avvocato Di Gregorio. «Aglieri non ha mai
parlato pubblicamente del suo percorso interiore».
Qualcuno a Palermo giura di aver ricevuto beneficenza da questo
capomafia, in un anonimo gesto di "riparazione". Nessuno
conferma ufficialmente. Il suo legale si limita a dire: «Dopo l’arresto,
ho ricevuto diverse telefonate da parte delle persone più diverse:
dicevano di aver ricevuto del bene da Aglieri. Non so altro, davvero».
Salvo Palazzolo