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«Un
pantagruelico banchetto durante il quale i commensali hanno divorato
tutto il possibile, senza badare a chi sarebbe venuto dopo». Così
monsignor Luigi Di Liegro, scomparso nel 1997, definiva la "welfare
society". Parole profetiche, che spiegano le contraddizioni del
nostro tessuto civile. Luigi
di Liegro, nato a Gaeta, sette fratelli, figlio di un pescatore
poverissimo emigrato otto volte, clandestinamente, in America, è stato
il mitico direttore della Caritas diocesana di Roma. Ordinato
sacerdote nel 1953, partecipò all’esperienza di Jeunesse ouvrière
in Francia e in Belgio, specie fra i minatori della zona di Anversa.
A Roma ha affrontato il degrado civile e morale delle periferie,
spendendo anni e anni di lavoro metodico, quotidiano, capillare.

Don
Luigi Di Liegro, direttore della Caritas di Roma
morto nel 1997(foto di PERIODICI
SAN PAOLO/E. BARONTINI)
Nel 1974 fu uno degli organizzatori dello storico
convegno voluto dal cardinale Poletti su "I mali di Roma"; ne
fece una tribuna per criticare con vigore le carenze dei pubblici poteri
nella tutela dei diseredati. A quel dibattito rimase legata l’istituzione
della Caritas, che venne subito chiamato a dirigere. In tale
veste si è occupato di circa 110 mila extracomunitari, centomila
anziani non autosufficienti, migliaia di "barboni" e di
zingari, e non si sa di quanti tossicodipendenti e malati di Aids. Ai
suoi ordini, solo venti persone, ma gli si fecero intorno oltre
quindicimila volontari.

(foto PERIODICI SAN PAOLO/A. DEL
CANALE).
Era sulle pagine di tutti i giornali: lo si
interrogava a proposito di grandi problemi, quelli posti dalle
immigrazioni o, più in generale, dal dover concretamente garantire i
diritti umani e civili alle minoranze, specie le più emarginate. Fu in
qualche modo l’antesignano della polemica in corso sui pericoli, veri
o presunti, che sarebbero derivati da un ulteriore afflusso di
extracomunitari.
Io lo ebbi tra le persone care e preziose: da
consultare, tra l’altro, per la mia attività giornalistica. Ai tempi
in cui diressi il Gr1, e poi alla presidenza della Rai, mi fu spesso
vicino con generosa sensibilità. Conservo, di lui, questa intervista.
Mi disse di essersi messo nelle mie mani con «fiducioso abbandono».
Gliene sono ancora, dolcemente, grato. Concordo nel riproporla, e non
solo perché testimonia della sua ricchezza spirituale e umana, etica e
civile, ma anche per la sua carica profetica.

Don Luigi Di Liegro
instancabile promotore di attività
in difesa dei poveri(foto PERIODICI
SAN PAOLO/G. GIULIANI).
Venuti a scadenza problemi, difficoltà e inquietudini
– con l’insorgere di una tremenda sordità umana ai bisogni di un
numero crescente di rifiutati – quella intervista è oggi una sorta di
grido che scuote le nostre coscienze. Stava finendo, con il secolo, la
sua vita stessa. Ne aveva fatto un tuttuno, deciso a brandire i segni
che il nostro tempo, tra grandi e persino atroci controversie, affidava
agli uomini di buona volontà decisi a difenderla. Ed ecco l’intervista.
Vi prego di notare: è del 1993.
- La conclusione del secolo, segnata dal ricupero
di una ragione finalmente vittoriosa dopo cattive prove dei miti,
non ha visto tuttavia emergere un più solidale ordine di valori. È
anzi esplosa una quantità di egoismi: razziali, nazionali, sociali
e individuali. Nessuno ne sembra esente. È come se vivessimo di noi
e per noi stessi, privilegiando ciò che può darci il presente,
negando il valore dell’esperienza passata e sottraendo al futuro
quanto è godibile oggi. Si annuncia un’altra sconfitta?
«Il mondo è preda di una sorta di "complesso di
Clodoveo"; al re dei Franchi, San Remigio disse: "Brucia ciò
che hai adorato, adora ciò che hai bruciato". Allo stesso modo,
oggi, viviamo nella frenesia di sbarazzarci di tutto ciò che non
appartiene al nostro presente, cioè al patrimonio cui dar fondo subito,
come se al prima e al dopo non corrispondesse che il già consumato o il
non ancora consumabile. Ma più ancora preoccupa la tendenza a
dimenticare l’altro, a farsi carico solo di sé. Dicono gli economisti
che l’orizzonte temporale delle scelte si è di molto accorciato:
nessuno investe più sul futuro, nessuno guarda oltre la propria
capacità di accumulare e disperdere. La storia di questi ultimi anni è
stata un grande, pantagruelico banchetto durante il quale i commensali
hanno divorato tutto il possibile, senza badare a chi sarebbe venuto
dopo. La stessa riduzione delle nascite significa non volersi più
spendere per gli altri, e chiudersi in un egoismo fine a sé stesso».

(foto
PERIODICI SAN PAOLO/F. TAGLIABUE).
- Sta cioè cambiando il modo di riconoscere gli
altri come «prossimo» nostro?
«L’idea di sé e l’idea di prossimo tendono ad
avvicinarsi, ma in senso deteriore: riconosciamo il nostro prossimo in
chi ci interessa, è legato a noi, alla nostra stessa famiglia,
addirittura al nostro clan. Al di fuori di questi àmbiti non c’è
soltanto indifferenza, c’è anche paura, sospetto e persino ostilità.
In alcuni momenti della storia il rifiuto dell’altro diventa
esasperato. Che ciò accada ancora, per il venir meno di sicurezze e
vantaggi acquisiti, si credeva, definitivamente, non fa pensare a un
tipico fenomeno di razzismo, ma piuttosto a qualcosa che chiamerei, mi
passi il termine, "cittadinismo". Come dire una sorta di
degenerazione dell’idea di cittadinanza, da cui nasce un abnorme e
detestabile impulso difensivo dei propri privilegi contro chi incarna l’immagine
stessa della disperazione e della penuria, che si vuole scacciare, tener
lontano da sé».

Don Di Liegro a una
manifestazione in difesa dei diritti
degli extracomunitari (foto PERIODICI
SAN PAOLO/E. BARONTINI).
- Per tanti segni sembriamo, è vero, più
egoisti; ma poi si scopre che milioni di persone s’impegnano nell’assistenza
volontaria ai più deboli. Questa risposta di una parte cospicua
della società non dovrebbe indurci all’ottimismo?
«Certo, ma senza trarne un’eccessiva lusinga. Anzi,
tenendoci a quest’idea: il buono che c’è, sebbene provvidenziale,
è pur sempre la risposta a quanto c’è di cattivo. È l’eterno
conflitto tra le forze del bene e del male. Pace, uguaglianza,
solidarietà, altruismo e amore non sono parte naturale dell’uomo:
debbono ogni volta essere perseguiti e raggiunti con impegno e
perseveranza, e al tempo stesso difesi dalle forze che vi si oppongono.
La pace presuppone la guerra, l’equità la disuguaglianza, il soccorso
la miseria, l’altruismo l’amor di sé. La dedizione e il sacrificio
di alcuni sono sempre il segno del dolore di altri. Temo che in questo
momento la società stia dando segni di sofferenza anche e proprio sul
versante dell’impegno richiesto per contrastare le angustie di chi da
solo non ce la fa».

(foto PERIODICI
SAN PAOLO/F. TAGLIABUE).
- «Sappiamo ciò che siamo», dice Shakespeare, «ma
non ciò che possiamo essere». Crede davvero che si viva come in
attesa di capire quale direzione dover prendere? E che abbiamo, in
ogni caso, libertà di scelta?
«Lei richiama un tema caro a Giovanni XXIII: quello
di scrutare i segni dei tempi per capire, appunto, dove dirigersi e
andare. Esistono desideri dell’uomo, manifesti in tutta la sua storia,
che l’hanno orientato verso traguardi di perfezione. Quanto alla
libertà di scegliere, essa va intesa nel senso di saper accogliere, o
rifiutare, la chiamata insita in quell’anelito. Compio un’azione
libera quando in essa trovo qualcosa che mi corrisponde ed è, insieme,
parziale perfezionamento di me e del mondo; sono libero di realizzarla
tutte le volte che, rifiutando, per ciò stesso scelgo. Poi viene il
fare, l’intraprendere. Mettersi all’opera senza chiedere troppe
garanzie è credere in ciò che si può fare e quindi va fatto».
- Quattro ragazzi, negli Stati Uniti, si sono
uccisi perché – hanno lasciato scritto – senza il successo non
valeva la pena di «perdere tempo». Accade, sciaguratamente, anche
da noi. Ebbene, questa smania di primeggiare che significa tutto,
persino la morte, che cosa denuncia?
«Soprattutto il fallimento del progetto di società
che ha creduto di poter "contabilizzare" qualunque esigenza,
addirittura ogni sentimento. Per anni abbiamo stoltamente indotto i
giovani a considerare valore supremo il successo, in primo luogo,
economico. Tutto è stato convertito in beni, fino a glorificare gli
stessi simboli. È nata una paranoica rincorsa a crearne sempre di
nuovi, a sostituirli sempre più in fretta, a fare del mercato una fiera
inesausta di offerte e domande, o viceversa. Senza capire che in tal
modo s’innescava un circuito perverso, che provoca il bisogno di
possedere come convalida dell’esistere. Mi domando se la droga stessa
non sia l’espressione esasperata, patologica, del consumismo».

(foto CATHOLIC
PRESS PHOTO/R. SICILIANI).
- Ma i giovani hanno in sé grandi risorse. Non
pochi tra coloro che si erano perduti, persino inseguendo l’illusione
del terrorismo, sono poi approdati al volontariato. Lei ne ha
conosciuti diversi, più d’uno lavora con lei: che cosa cercavano,
e che cosa sono stati in grado di dare?
«Erano, spesso, ragazzi incapaci di sopportare nell’indifferenza
la richiesta di giustizia che si legge negli occhi degli esclusi. Prima
di scegliere la non violenza hanno sciupato la loro vita, e offeso in
modo grave quella altrui, in nome di convinzioni terribilmente astratte;
dimenticando, o non conoscendo, la complessità e il valore sacrale dell’esistenza.
Ma ciò che hanno portato all’interno di strutture come la Caritas,
impegnandosi su tanti fronti della società, si è mostrato ricco di
quella forza originaria poi contraddetta dalla scelta dell’illegalità.
Oggi sono persone del tutto rinate a fianco dei diseredati».
Sergio Zavoli
(continua a settembre)
Monsignor Luigi Di Liegro è
stato direttore della Caritas di Roma dal 1980 fino al giorno
della sua morte, il 12 ottobre del 1997. Instancabile difensore
dei più emarginati, ha testimoniato con la sua opera il motto
evangelico che da sempre ha ispirato la Caritas: «I poveri li
avrete sempre con voi». Definito dalla stampa "il
monsignore dei diseredati", amava ripetere: «Col
volontariato non si risponde a bisogni, ma si difendono diritti».
Il suo successore e attuale direttore della Caritas di Roma è
monsignor Guerino Di Tora.
La Caritas di Roma è impegnata
su vari fronti di attività: da quelle più tradizionali di
ascolto e accoglienza, ad altri servizi come il settore
documentazione e ricerca e la Fondazione contro l’usura.
Inoltre cura alcune riviste come Roma Caritas e Operatori di
pace. Tra le iniziative in corso, "Sono rimasto solo",
che si rivolge agli anziani che hanno bisogno di aiuto per le
necessità quotidiane nei mesi estivi.
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