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Gino Severini

«Era come un fabbro paziente e umile»

SEVERINI NEL RICORDO DI UN AMICO

di Marcello Camilucci
      

   Jesus n. 2 febbraio 1998 - Home Page Se la scarsità dei contatti e degli incontri non mi autorizza a parlare di un’amicizia con Gino Severini, ad essa posso legittimamente riferirmi in quanto Severini, pur nel rapporto più labile ed estemporaneo, si consegnava con sincerità e generosità totali. Nella mia lunga frequentazione degli artisti e nella sperimentazione della loro inquieta e variegatissima caratteriologia, non ho incontrato artista del quale potessi dire con altrettanta sicurezza di aver valicato la soglia della sua interiorità e goduto della sua confidenzialità più sincera e disarmata.

La conoscenza diretta dei più importanti spiriti innovatori della grande stagione parigina (da Picasso a Cocteau, da Braque a Rouault, da Cézanne ai surrealisti) fecondò la sua naturale sete di esperienze, ma quello che fu ancora più decisivo nell’orientare la sua creatività fu la consapevolezza che mai lo abbandonò e che, anzi, negli anni si acuì, che l’esercizio dell’arte (qualsiasi arte) non dipende esclusivamente dalle scelte estetiche in quanto queste non prescindono dall’humus filosofico-morale in cui affondano le radici. A questo proposito, capitale fu per lui l’amicizia e la consonanza con Jacques Maritain che lo confermò nella fede che l’arte, come scriveva Paul Klee, «è ad immagine della Creazione. Essa è ogni volta un esempio così come il terrestre perpetua il cosmico» (Confessione creatrice, 1920). Fede che lo aiutava a uscire indenne dalla cruenta controversia che opponeva innovatori e tradizionalisti.

Chiunque lo abbia visto lavorare credo che abbia provato la mia stessa commozione: un fabbro paziente e umile che impegna tutte le astuzie di un mestiere che gli viene da una tradizione annosa, ma che resta sempre in attesa della falda di fuoco che scese nel Cenacolo a convertire dei rozzi pescatori e pastori in apostoli di una verità destinata non solo a liberare l’uomo, ma anche a renderlo felice, rivelandogli quel volto del mistero che non sempre coincide col bello formale, ma che è tutt’uno con la luce epifanica del sacro che è la "Bellezza".

Dismessi gli abiti squillanti del toreador reduce dalle arene delle corride estetiche (e Gino Severini fu anche un acceso polemista, che non venne mai a patti con gli idola fori), seppe sempre indossare quelli dimessi del contemplativo conscio che la battaglia ultima si gioca, anche per l’artista, con la trascendenza e la grazia che ne discende. E il suo mondo pittorico così ordinato e sereno – e pur così fervido e pugnace –, nel quale le ragioni dell’intelletto e quelle del cuore pascaliano convivono armoniosamente, seguita gioiosamente a confermarcelo.

Marcello Camilucci

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