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Se la scarsità dei contatti e degli
incontri non mi autorizza a parlare di unamicizia con Gino Severini, ad essa posso
legittimamente riferirmi in quanto Severini, pur nel rapporto più labile ed estemporaneo,
si consegnava con sincerità e generosità totali. Nella mia lunga frequentazione degli
artisti e nella sperimentazione della loro inquieta e variegatissima caratteriologia, non
ho incontrato artista del quale potessi dire con altrettanta sicurezza di aver valicato la
soglia della sua interiorità e goduto della sua confidenzialità più sincera e
disarmata. La conoscenza diretta dei più importanti spiriti innovatori della
grande stagione parigina (da Picasso a Cocteau, da Braque a Rouault, da Cézanne ai
surrealisti) fecondò la sua naturale sete di esperienze, ma quello che fu ancora più
decisivo nellorientare la sua creatività fu la consapevolezza che mai lo abbandonò
e che, anzi, negli anni si acuì, che lesercizio dellarte (qualsiasi arte) non
dipende esclusivamente dalle scelte estetiche in quanto queste non prescindono
dallhumus filosofico-morale in cui affondano le radici. A questo proposito, capitale
fu per lui lamicizia e la consonanza con Jacques Maritain che lo confermò nella
fede che larte, come scriveva Paul Klee, «è ad immagine della Creazione. Essa è
ogni volta un esempio così come il terrestre perpetua il cosmico» (Confessione
creatrice, 1920). Fede che lo aiutava a uscire indenne dalla cruenta controversia che
opponeva innovatori e tradizionalisti.
Chiunque lo abbia visto lavorare credo che abbia provato la mia stessa commozione: un
fabbro paziente e umile che impegna tutte le astuzie di un mestiere che gli viene da una
tradizione annosa, ma che resta sempre in attesa della falda di fuoco che scese nel
Cenacolo a convertire dei rozzi pescatori e pastori in apostoli di una verità destinata
non solo a liberare luomo, ma anche a renderlo felice, rivelandogli quel volto del
mistero che non sempre coincide col bello formale, ma che è tuttuno con la luce
epifanica del sacro che è la "Bellezza".
Dismessi gli abiti squillanti del toreador reduce dalle arene delle corride
estetiche (e Gino Severini fu anche un acceso polemista, che non venne mai a patti con gli
idola fori), seppe sempre indossare quelli dimessi del contemplativo conscio che la
battaglia ultima si gioca, anche per lartista, con la trascendenza e la grazia che
ne discende. E il suo mondo pittorico così ordinato e sereno e pur così fervido e
pugnace , nel quale le ragioni dellintelletto e quelle del cuore pascaliano
convivono armoniosamente, seguita gioiosamente a confermarcelo.
Marcello Camilucci |