INTERVISTA - DON ARMANDO ZAPPOLINI
Il grido di un prete
di strada
di LAURA BADARACCHI Sorriso franco e battuta pronta,
don Armando Zappolini è un parroco
toscano che, dall'inizio di quest'anno, è
anche presidente del Coordinamento
nazionale delle Comunità di accoglienza
(Cnca). In questa intervista ci racconta,
senza peli sulla lingua, l'Italia della politica e
della Chiesa, viste con gli occhi degli ultimi.

Protesta di
un'associazione di disabili contro le barriere nelle scuole
(foto C. FUSCO/ANSA).
Mentre apre la posta elettronica e risponde
al cellulare, cerca con lo sguardo nella
libreria un libro di don Andrea Gallo,
Il cantico dei drogati, con la dedica autografa:
«Il Cnca è un patrimonio: riscoprire
le radici!».
Una consegna significativa per don Armando
Zappolini, dal gennaio scorso alla guida per un
quadriennio del Coordinamento nazionale Comunità
di accoglienza, dopo essere stato presidente del Cnca
Toscana, vicepresidente nazionale e responsabile del
settore internazionale della federazione.
Originario di
Palaia, da quasi trent'anni prete della diocesi di San Miniato,
vive a Perignano (Pisa), dov'è parroco della chiesa
di Santa Lucia; gli sono affidate anche le frazioni di
Quattro Strade, Lavaiano e Gello di Pontedera. Sorriso
empatico e battuta toscana sempre pronta, il cinquantaquattrenne
don Armando è un «prete di strada»,
con il colletto del clergyman slacciato e infilato nella camicia
«cucita da un amico musulmano in India». Entrato
nel seminario minore di Pisa «attratto dal senso del
mistero», è stato assistente diocesano dell'Acr e animatore
di gruppi giovanili, frequentatore di Taizé e innamorato
di san Francesco.
Un sacerdote impegnato all'interno
dei confini della sua diocesi, dunque,
fino alla «svolta» avvenuta nel 1990,
quando iniziano i primi contatti con il Cnca:
«In un casolare vicino alla mia parrocchia
è nata la comunità terapeutica per
tossicodipendenti di Usigliano, voluta da
alcune famiglie genovesi. Lì ho scoperto
l'attenzione alla persona, il mettersi accanto
all'altro e conquistarne la fiducia,
senza mai fare domande». Nello stesso
anno, don Zappolini conosce padre Orson
Wells, prete indiano accolto da piccolo
da madre Teresa di Calcutta; nel
1991 fonda l'associazione Bhalobasa per
il sostegno a distanza e si apre al Sud del
mondo. «Però non basta la carità: ci vogliono
i percorsi di giustizia», osserva
don Armando. Di qui il suo impegno in
Libera - Associazione, nomi e numeri contro
le mafie, e nel 2001 la partecipazione
come delegato alla scuola Diaz, per conto
del Cnca, durante il G8 di Genova.
Fondatore di cooperative sociali e
associazioni, lo scorso anno – alla festa
dell'Unità di Lavaiano – ha inventato e
venduto con successo la «Pizza papi»:
«Goliardia pura, solo uno "scherzo da
prete" per ridere un po'» e per raccogliere
fondi destinati ai minori in difficoltà.
Nel suo mandato da presidente del
Cnca, ha deciso di puntare su «partecipazione,
responsabilità, difesa del welfare,
presenza sui territori e, soprattutto,
attenzione al Sud». Parole "pesanti", da
cui prendere spunto per un'analisi a tutto
tondo dell'Italia odierna.

Un centro di accoglienza per mamme e bambini a Roma (C. FABIANO/EIDON).
- Partiamo dalla crisi: economica e, al
tempo stesso, di prospettive, di futuro. Viviamo
in un'Italia impoverita di valori?
«La crisi rappresenta anche un alibi
per aggredire e smantellare i diritti,
mentre intanto lo smarrimento diventa
sintomo di una grave emergenza culturale
e democratica del Paese. In tanti ci
trasmettono la sensazione di essere abbandonati
a sé stessi, vulnerabili, confinati
nelle periferie sociali che si stanno
allargando: i servizi chiudono, mentre i
tagli ricadono su genitori che chiedono
un posto al nido per il figlio, bambini disabili
che non vanno più a scuola con
un accompagnamento, tossicodipendenti
che non possono più fare percorsi
di comunità a causa di fondi bloccati.
La politica, distratta e lontana, non ha
mai condiviso – anche quando al Governo
c'era la coalizione di centrosinistra –
il nostro concetto di welfare, concepito
anche come investimento, perché fa
spendere meglio i soldi. Un esempio?
Riempire le carceri di disperati vuol dire
spendere male e troppo, senza attivare
percorsi di inclusione: una comunità costerebbe
quattro volte meno della detenzione,
e una persona reinserita nel
tessuto sociale pagherà i contributi e le
tasse.
Ma davanti a un Paese imbarbarito,
che scivola sempre di più nella povertà,
il Governo reagisce con un taglio
dello Stato sociale pari all'80% negli ultimi
quattro anni: un'Italia sempre più
egoista e indurita che mette ai margini i
più deboli. Si aggredisce la scuola pubblica,
si azzera il fondo per la non autosufficienza,
si portano alla chiusura risposte
di prossimità e di cura attive da anni, e
poi si spendono 14 miliardi di euro per
comprare cacciabombardieri... Tuttavia,
se dall'impoverimento economico si
può uscire invertendo talune scelte di
politica economica, la crisi di valori mi
sembra molto più devastante».

Don Armando Zappolini (foto A. GIULIANI/CATHOLIC PRESS PHOTO).
- Lei percepisce comunque una frattura
tra politica e vita reale della gente,
una sfiducia dei cittadini di fronte alla demolizione
del welfare?
«Dalle ultimi elezioni amministrative
direi che sono emersi alcuni segnali
di speranza e partecipazione: se la politica
parla nuovi linguaggi che la gente capisce
e attende, una risposta c'è. Perché il
volontariato non può risolvere i problemi:
stimola, integra, aiuta a trovare strade
e percorsi, ma ha un ruolo suppletivo
rispetto alla politica, fermo restando
il rapporto strutturale che deve avere
con il territorio e con i servizi pubblici. Invece
la demolizione del welfare universalistico
apre la strada alla sua privatizzazione,
alla trasformazione dei diritti in bisogni
su cui fare business, all'assistenzialismo:
tutto questo a noi cristiani dovrebbe
far vomitare, ma evidentemente molti
prendono il Plasil e non vomitano. Si
tenta di ritornare al "buon cuore", all'approccio
caritatevole, a una Italia che
sempre più viaggia a due velocità, allargando
progressivamente la forbice fra
chi ha dignità e una gran massa di persone
invisibili e senza tutela».

Una donna rom acquista un crocifisso a una
bancarella di souvenir religiosi davanti alla basilica di San Paolo fuori le Mura, a Roma (foto C. FABIANO/EIDON).
- Lei descrive uno scenario se non proprio
drammatico, quanto meno molto difficile:
ci sono responsabilità anche del volontariato
e del mondo ecclesiale?
«Sì, anche noi abbiamo delle colpe.
In questi anni è cambiata la testa della
gente in modo subdolo, come succede
a chi entra pian piano in una dipendenza.
È passato – inizialmente attraverso
le Tv commerciali – lo stile dei giochi
a premi, del divertimento in cui si vince
sempre, del "tutto facile": condito da
sesso, violenza e aggressività, insieme
con il dilagare della mercificazione del
corpo femminile. Un sistema di materialismo
pratico che ha aggredito anche il
sentimento religioso: dovremmo cominciare
a boicottare certe trasmissioni televisive,
disintossicarci da questa visione
della realtà. Invece abbiamo lasciato il
Paese alla deriva: non abbiamo fatto argine,
ci siamo fatti strumentalizzare».

Attività ludiche in un asilo (foto A. ROSSI/EIDON).
- Un'altra faccia di questa mentalità
consumistica è la corruzione, l'idea di poter
comprare successo, potere, visibilità.
Come rilanciare la legalità sui territori?
«Da anni collaboro con l'associazione
Libera sulla questione dei terreni
confiscati alle mafie e sono convinto
che è molto più quello che si riceve rispetto
a quello che si dà, quando ci si impegna
a stare da una parte, quella della
legalità. Ecco: dobbiamo scegliere da
che parte stare. La zona grigia è già mafia:
non esiste neutralità, come al Senato,
dove l'astensione equivale al voto
contrario. Chi compie grandi illegalità le
copre con tante altre piccole, dando "caramelle"
alle persone compiacenti che
lo circondano. In questo clima, non possiamo
defilarci né permetterci distrazioni
oppure omissioni; non si può ammettere,
ad esempio, che un mafioso si accosti
alla Comunione, quando un divorziato
risposato non può farlo. È così difficile
dire che un mafioso non può ricevere
i sacramenti?».
- Paura del diverso, razzismo, intolleranza:
sentimenti che albergano nella
«pancia» di molti italiani, i cui umori vengono
cavalcati da questo o quel partito che
agita come uno spauracchio il rischio «invasione
» degli immigrati. Come valuta questo
approccio al fenomeno migratorio?
«Agitare il timore dell'immigrazione
e dell'insicurezza nelle città serve per
costruire quel senso di paura e di assedio
che suscita consenso in gran parte
del Paese e che giustifica scelte politiche
fatte con spot tanto appariscenti nel clamore
mediatico, quanto inutili e inefficaci
nella sostanza. Caritas e Migrantes ci
forniscono ogni anno dati puntuali nel
Dossier statistico sull'immigrazione: la
maggioranza assoluta degli stranieri in
Italia è regolare e ben inserita, una risorsa
per il Paese; pagano contributi che
forse non riscuoteranno mai. Certo, risulta
anche una piccola porzione di cittadini
irregolari, perché la legge non facilita
la regolarizzazione»

Un corteo di immigrati per le vie di Napoli (foto C. ABBATE/ANSA).
- Qual è la risposta dei credenti al
problema?
«Sui barconi centinaia di richiedenti
asilo, in fuga da guerre e povertà,
arrivano sulle nostre coste, nella terra in
cui c'è la sede del Papa, una nazione
che però respinge i profughi. Ma dov'è
finita la rabbia profetica dei cristiani?
Nel presepe allestito un anno e mezzo
fa in parrocchia, ho messo una barca,
riempita per metà di stracci, con la scritta
"Natale nel mare di Lampedusa": se
fosse nato oggi, Gesù sarebbe arrivato
sulle nostre coste come un clandestino
e l'Italia sarebbe la Betlemme che non
l'ha accolto. Esistono documenti del Magistero
a riguardo, manca però una loro
traduzione comunicativa accessibile a
tutti: sul fronte della giustizia, del sociale,
dell'accoglienza, la pratica è avanti rispetto
ai testi magisteriali. E poi ci vuole
coraggio: sui territori i credenti sono
sempre più chiamati a dire con i fatti
queste parole chiare».
- Un altro aspetto, strettamente correlato
alle migrazioni, è quello della cooperazione
internazionale. La maggioranza
politica invoca il motto "Aiutiamoli a casa
loro". Ma i fondi per finanziare progetti di
cooperazione con i Paesi di provenienza
dei migranti sono ridotti al lumicino...
«Gli accordi bilaterali si stipulano
dove c'è un interesse economico: tutta
la politica è asservita a interessi privati.
Speriamo che si arrivi a un cambiamento,
sostituendo il bene privato con il bene
comune. La cooperazione internazionale,
portata avanti in modo autentico,
potrebbe evitare che i migranti partano
per necessità, generando sviluppo nei loro
Paesi di origine a partire da un senso
profondo di giustizia. Quando ho partecipato
insieme ad altri volontari a una festa
in Uganda per inaugurare una scuola,
mi sentivo quasi in imbarazzo per tutti
gli onori nei nostri confronti e ho detto:
"Non veniamo come benefattori,
ma con vergogna e un po' di umiltà, a restituirvi
quello che vi abbiamo preso; infatti
la nostra ricchezza, in Occidente,
deriva più o meno direttamente da
quello che vi abbiamo sottratto negli anni".
Inoltre ritengo che la cooperazione
debba puntare a creare relazioni fra comunità,
a gettare ponti, rapporti tra Italia
e Sud del mondo, anche per intercettare
autentici bisogni e innescare processi
di crescita in loco. Girando in vari
Paesi, di cattedrali del deserto ne ho viste
tante: progetti finanziati, avviati e
poi abbandonati».
- A proposito di ipocrisie: qualche
tempo fa lei ha proposto di aprire un centro
d'ascolto per tossicodipendenti alla Camera
dei deputati, riferendosi alla notizia
relativa all'uso di cocaina di alcuni parlamentari:
era una provocazione?
«Credo ci sia un bisogno reale di
consulenza in Parlamento, che comunque
– un po' schizofrenicamente – sta
promuovendo un approccio criminogeno
verso i consumatori di droga. Conoscendo
i danni delle sostanze e senza
volerne promuovere nessuna, vorrei
chiarire che abuso non significa sempre
dipendenza, ovvero una deriva patologica
e residuale. Non si possono riempire
le galere di poveracci perché la legge
punisce il consumo, arrestando spacciatori
presunti. Chi si droga butta via soldi,
si fa del male, arricchisce le mafie.
Ma non si può leggere il problema solo
in modo ideologico e repressivo, quando
invece il fumo e l'alcol sono legali e
altrettanto nocivi... E nel frattempo lo
Stato guadagna su un'altra dipendenza:
il gioco d'azzardo».

Don Armando Zappolini insieme con un monaco buddhista
durante una manifestazione dell'associazione Libera.
- Lei conosce bene il mondo giovanile:
come stanno le nuove generazioni, in
bilico fra virtuale e reale? Quali orizzonti
sono possibili per loro?
«Per il mondo reale che si ritrovano,
quello virtuale attira molto di più i ragazzi,
insieme alla cultura dell'immagine:
da Miss Italia al Grande fratello, si è disposti
a tutto per apparire dieci minuti
in Tv. Prevalgono la dimensione esteriore
e la superficialità, ma di fronte a situazioni
reali non si sa come reagire. A fronte
della scarsa credibilità degli adulti,
penso sia importante creare spazi di aggregazione
per la peer education, in cui
anche la Chiesa può fare molto: dando
l'opportunità ai giovani di essere protagonisti,
di crescere come educatori e
animatori. Quando sentono storie vere,
le ascoltano e ti seguono. Hanno bisogno
di mangiare cose buone, non hanno
perso il gusto: non vogliono omogeneizzati,
ma testimoni convinti che essere
cristiani significhi avere una marcia in
più, non in meno».
- Altro nodo da sciogliere: le pari opportunità
per le donne. A che punto siamo,
in ambito civile ed ecclesiale?
«Talvolta ci domandiamo, preoccupati,
perché le donne italiane che lavorano
sono così poche, soprattutto al
Sud. Eppure basterebbe dare un'occhiata
ai servizi per l'infanzia, per darsi una
spiegazione: solo il 10% dei piccoli tra
zero e due anni sono presi in carico dagli
asili nido pubblici in Italia; un dato
che scende al 2% in Campania e Calabria.
Nonostante i discorsi demagogici
del Governo, il Fondo per le politiche per
le famiglie è diminuito dai 346,5 milioni
di euro del 2008 ai 52,5 del 2011, mentre
il Fondo servizi infanzia ha perso anche
i 100 milioni del 2008 ed è stato azzerato:
forse qualcuno preferisce che le
donne restino a casa a occuparsi di
bambini e anziani non autosufficienti,
permettendo così di ridurre ancora di
più il nostro welfare».
- E per ciò che riguarda le donne
nell'ambito ecclesiale?
«Noi cattolici non ci siamo liberati
da una vecchia sessuofobia. Soprattutto
alcuni movimenti fondamentalisti cattolici
sono prigionieri di blocchi e paure: alcune
mogli confessano ancora l'atto coniugale
come peccato, se non è finalizzato
a una gravidanza... Ci vorrebbe anche
una maggiore valorizzazione delle donne
nella pastorale: nel mio piccolo, cerco
di delegare il più possibile e di affidare
nelle loro mani Caritas, catechesi, animazione
liturgica, segreteria. Coordinare
laici responsabili è sicuramente più
impegnativo che avere dei "sudditi"».

Due bimbi in un campo rom attrezzato alla periferia di Roma (foto D. GIAGNORI/EIDON).
- È l'ottica della collegialità, auspicata
dal Concilio: a quasi mezzo secolo dal
suo inizio, a suo giudizio, il Vaticano II è
stato attuato?
«Se oggi si leggono alcuni documenti
del Concilio senza citarne la fonte,
si rischia di passare per estremisti...
Le sue spinte profetiche e le sue aperture
più innovative risultano compresse e
depresse: la pastorale resta ancora molto
clericocentrica e la dignità del popolo
di Dio poco riconosciuta; invece proprio
dai fermenti del post-Concilio sono
nate alcune comunità del Cnca. L'atteggiamento
di difesa della cultura cristiana
trasmette una visione formalistica
che provoca indurimenti nelle relazioni;
l'ottica della barricata e della contrapposizione
("noi" e "loro") non paga: noi siamo
in mezzo a loro. La Chiesa oggi parla
tanto del mondo, ma standoci poco
dentro, perché è più concentrata sul
suo interno e sulle sue strutture, che
possono diventare fortini e muri di cinta.
Ma un prete – e ogni credente – non
può restare in parrocchia senza accorgersi
di cosa accade fuori: sulla strada
non si va a insegnare, si impara».
Laura Badaracchi
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