CULTURA
- PAROLE DI SEMPRE La
Bibbia secondo gli ebrei
di Gianfranco Ravasi
biblista - Presidente del Pontificio consiglio della cultura
Maestri nella
lettura e nell’interpretazione della Torah, gli ebrei hanno una
antichissima consuetudine con le Sacre Scritture. Per conoscere i loro «fratelli
maggiori», dunque, i cristiani devono innanzitutto capire come essi si
rapportano alla Parola di Dio.
Il
21 di questo mese il calendario colloca la festa di san Matteo, l’apostolo
che, stando alla narrazione evangelica, era un esattore, ma che nella
stesura del suo Vangelo fatto di 18.278 parole greche, distribuite ora in
1070 versetti e 28 capitoli, si rivela come uno scriba ebreo, tant’è
vero che c’è chi ha ipotizzato che i cinque grandi discorsi di Gesù
destinati a reggere il suo scritto vogliano ammiccare a una novella Torah
o Pentateuco cristiano. Certo è che il suo è il testo evangelico più
"giudaico" sia per rimandi a situazioni concrete (anche
polemiche), sia per l’imponente massa di citazioni bibliche (almeno 63
sono quelle esplicite). Inoltre, l’ultimo giorno di questo mese reca
anche la memoria del "biblista" san Girolamo che non solo si
dedicò con passione allo studio delle Scritture, ma che fece della loro
versione in latino la missione principale della propria vita, andando
persino a lezione di ebraico da un rabbino.

Un rabbino legge brani della Torah con il
testo in ebraico
(foto di J. Jacobson/AP/La Presse).
Ebbene, sulla scia di queste due figure, vorremmo ora riservare il
nostro spazio a una sintetica e semplificata presentazione della modalità
con cui l’ebraismo ha letto e legge la Parola di Dio. Dovremo
naturalmente ricorrere a una terminologia "tecnica" piuttosto
specifica, ma pensiamo che questo offrirà l’occasione a tutti per
arricchire il nostro approccio alla Bibbia. Per chi vorrà approfondire il
tema, rimandiamo alle voci specifiche dei vari dizionari biblici e alla
raccolta di saggi, curata da S. J. Sierra, La lettura ebraica delle
Scritture, edita dalle Dehoniane di Bologna nel 1995. Una prima
menzione di questa lettura appare nello stesso Antico Testamento, proprio
alle origini di quello che verrà poi denominato il giudaismo. Si tratta
della scena descritta nel capitolo 8 del libro di Neemia che tempo fa
abbiamo approfondito proprio in questa rubrica.
Il sacerdote Esdra, di fronte all’assemblea degli Ebrei rimpatriati
dall’esilio babilonese, presiede coi leviti un rito in cui si legge la
Torah «a brani distinti e con spiegazione del senso così da far
comprendere la lettura» (v. 8). In quella menzione dei «brani distinti»
alcuni intravedono la genesi delle parashôt, ossia delle
"pericopi", cioè dei brani con cui è attualmente suddiviso il
Pentateuco in modo da consentirne la lettura integrale in sinagoga nei
sabati secondo un ciclo triennale o annuale. A questo proposito vorremmo
qui far cenno anche alla questione della traduzione: in epoca post-esilica
era divenuto dominante l’aramaico; così si procedeva spesso – dopo la
lettura dell’ebraico con cui era stata scritta la Torah – alla
versione nella nuova lingua popolare. Era il cosiddetto targum, che
non di rado si trasformava in una vera e propria parafrasi, divenendo un
documento prezioso per la storia dell’interpretazione della Bibbia nell’antichità
giudaica.
Questo fenomeno ci spinge a illustrare un altro dato caratteristico,
quello della derashah, cioè della «ricerca» o «esegesi»
ebraica delle Scritture. Tra l’altro, ricordiamo che ciò che noi
denominiamo come Bibbia, ossia «i libri» sacri, nel giudaismo era la miqra’,
«lettura» (la stessa radice e lo stesso significato sono alla base del
vocabolo «Corano»), o meglio Ta-NaK, un acronimo che comprendeva
le tre parti in cui era articolato l’Antico Testamento: la Torah, i Nevi’îm,
cioè i Profeti, e i Ketubîm, gli Scritti sapienziali. Ebbene,
quella «ricerca» seguiva più percorsi: ne vorremmo evocare solo un
esempio che ha come oggetto la preghiera di Anna, futura madre di Samuele,
nel tempio di Silo (1Samuele 1,9-18).
La Bibbia dice che «parlava in cuor suo», cioè – spiegano i
rabbini – «chi prega lo deve fare con l’intenzione del cuore»; però
«muoveva le labbra», e questo perché l’orante deve sempre coinvolgere
il corpo nella preghiera; ma «non si sentiva la sua voce», così da
insegnarci che chi prega non deve alzare eccessivamente la voce; Anna era
stata erroneamente ritenuta dal sacerdote di quel tempio un’ubriaca per
questo suo comportamento: in tal modo ci è stato insegnato che all’ubriaco
non è lecito pregare. Come si vede, è una minuziosa applicazione dei
vari segmenti del testo sacro al comportamento del fedele.
L’altro modello di lettura ebraica delle Scritture era detto haggadah,
«narrazione»: si cercava di abbellire la pagina biblica, colmandone i
vuoti narrativi con libere ricostruzioni, oppure si introducevano spunti
omiletici o morali o esistenziali, talora dando origine a vere e proprie
trame nuove con prodotti sbocciati da un germe biblico e cresciuti a
dismisura. Molti esegeti, ad esempio, ritengono che alcuni libri
deuterocanonici come quelli di Tobia, Ester e Giuditta obbediscano alle
regole dell’haggadah, mentre celebre è l’haggadah pasquale
giudaica che è modulata molto creativamente sul racconto pasquale del
capitolo 12 dell’Esodo. Questo approccio narrativo ebbe grande successo
nella cosiddetta letteratura apocrifa cristiana e continuò a permanere
anche nell’epoca patristica (si pensi, ad esempio, alla nota Vita di
Mosè di Gregorio di Nissa, nel IV sec.).

Alcuni ebrei romani all’interno della
cosiddetta "Sinagoga dei giovani",
sull’Isola Tiberina (foto
di D. Giagnori/Eidon).
A questo punto tentiamo di individuare i metodi interpretativi che
reggevano simili «ricerche» sul testo biblico. Quattro sono le vie
adottate, stando almeno a una classificazione tradizionale. Con le loro
iniziali esse ricalcherebbero le quattro consonanti della parola «paradiso»
(in ebraico pardes), ossia P, R, D, S. Il primo metodo, dunque, era
detto Peshat e puntava diretto al significato primario del testo,
quello letterale. Il secondo andava oltre questo valore basico ed era
denominato appunto Remez, «insinuazione», ed era la scoperta di
significati reconditi, segreti, che talora ammiccavano persino nelle
stesse lettere delle parole ebraiche, sulla scia di quel detto rabbinico
che affermava: «Settanta sono i volti di ogni parola della Torah».
Giungiamo, così, al terzo metodo, il Derush, ove si ha ancora
la radice verbale della «ricerca» già incontrata: attraverso il ricorso
a sentenze, proverbi, parabole, dispute e altri generi letterari si
applicavano i testi biblici alla storia vissuta da Israele nel passato e
nel presente, aprendo squarci sul futuro. Era, quindi, un’attualizzazione
della Parola di Dio. Infine, ecco il Sôd, cioè «il segreto, il
mistero»: per intuire questo senso supremo e trascendente delle Scritture
era necessaria una grazia particolare, ed è per questa via che si
delineavano alcuni percorsi mistici ed esoterici che approdarono ad alcune
opere legate alla tradizione della Kabbalah, fiorita soprattutto in epoca
medievale.
Naturalmente questo quadro da noi abbozzato è fortemente schematico e
non rende conto della complessità dell’accostamento che la tradizione
giudaica ha operato nei confronti della Scrittura, sia nell’ambito della
sinagoga e, quindi, dell’ufficialità, sia nella lettura privata, sia
nella ricerca rabbinica che spesso raggiungeva livelli di alta
sofisticazione, tali da introdurre vere e proprie geometrie mentali fini a
sé stesse. Certo è che si teneva sempre ferma la convinzione della
necessità di un significato di base legato alle parole e della presenza
di un significato trascendente, pensato e voluto dal divino Autore. Era
per questa strada che si configurava oltre alla Torah she-bi-ketab, cioè
alla Torah scritta, fondamentale e intangibile, una Torah shebe-’al
peh, ossia una Torah orale, destinata a raccogliere l’intima
densità spirituale della pagina scritta.

Ebrei israeliani espongono i rotoli delle
Torah durante una manifestazione
(foto di J. Larma/AP/La Presse).
Concludiamo con un cenno al giudaismo contemporaneo che ha aperto
qualche nuovo sentiero interpretativo. Pensiamo al ricorso al testo sacro
in chiave politica per giustificare, ad esempio, l’«eredità» di
Israele nei confronti della Terra Santa (in questa linea un impulso fu
dato da un movimento "laico" come quello sionista, ma è
presente ovviamente in chiave religiosa presso i cosiddetti ebrei
ortodossi). La stessa Shoah dette l’avvio a una lettura intensa e fin
drammatica delle Scritture, con domande radicali sulla possibilità di
credere nella Bibbia e in Dio dopo un’esperienza così tragica per la
fede. Ai nostri giorni, poi, ha preso il via una lettura che tiene conto
della presenza cristiana e che, perciò, apre spiragli per una nuova
teologia messianica (su questo aspetto, molto specifico e problematico,
abbiamo già avuto l’occasione di intervenire non molto tempo fa su
queste stesse pagine, parlando degli "Ebrei messianici").
Rimane, comunque, sempre valido l’appello contenuto negli Orientamenti
e suggerimenti per l’applicazione della dichiarazione conciliare
"Nostra Aetate n. 4", proposti nel 1974 dalla Commissione
per le relazioni religiose della Chiesa cattolica con l’ebraismo: «È
necessario che i cristiani cerchino di capire meglio le componenti
fondamentali della tradizione religiosa ebraica e apprendano le
caratteristiche essenziali con le quali gli Ebrei stessi si definiscono
alla luce della loro attuale realtà religiosa».
Gianfranco Ravasi
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