«Sono
nato in una famiglia antifascista, per metà cattolica e per metà
valdese». Arrigo Cavallina negli anni di piombo è stato il fondatore
e l’ideologo dei Pac, i Proletari armati per il comunismo. Il
"maestro" di Cesare Battisti. Fu tra i primi a sperimentare
il carcere duro e uno degli ideatori del movimento della
dissociazione. Oggi vive a Verona, dedicandosi a tempo pieno all’universo
carcerario con l’associazione "La fraternità". «Da
ragazzino frequentavo la parrocchia», racconta. «Le medie sono state
anni difficili, segnati dalla morte di mio padre». All’epoca lavora
per aiutare la madre, si iscrive a ragioneria. Entra in contatto con
Gioventù Studentesca. Legge molto: romanzi, ma anche saggi di
cattolici "terzomondisti"; approfondisce il protestantesimo.
Finché, tra un libro e l’altro, si imbatte nel Capitale di
Marx.

Il cardinal Martini benedice la salma di
Walter Tobagi durante i funerali
del giornalista assassinato
(foto E. Belluschi/Periodici San Paolo).
«Per un ragazzino in ricerca, era una spiegazione convincente
delle differenze sociali e dello sfruttamento. Così, mentre gli amici
mi convincono a prendere la tessera di Azione cattolica, mi iscrivo
anche alla Federazione giovanile comunista. L’esperienza dura poco.
Il Pci era invivibile: contava solo quanti tesserati portavi. Ribelle
all’impostazione dogmatica, me ne vado. Fondo un giornale su cui
scrivono liberamente comunisti, cattolici, liberali e anche un
fascista. Una delle esperienze più belle».
- Intanto è alle soglie dei vent’anni. Che cosa succede?
«La vita personale si scolla pian piano da quella politica. Fuori
dal Pci ci sono una miriade di gruppetti. Li frequento, partecipo,
ascolto. Leggo Mao e lo apprezzo, ma non sopporto il maoismo fatto di
slogan. Ascolto Curcio. Leggo Toni Negri, una testa notevole. Entro a
far parte di Potere Operaio. È il momento delle grandi rivoluzioni:
Russia, Cina, Cuba. Senza armi, non si vince: si comincia a parlare di
lotta armata, che agli inizi si traduceva in atti miseri: aprire un’auto,
attaccare due fili a una sveglia, rubare tritolo da una cava. Gesti
per cui ero negato, io che non sapevo cambiare una lampadina».

Da sinistra: Renato Curcio, Mario
Moretti e Alberto Franceschini leggono
il giornale durante il processo ai capi storici delle Br, a Torino nel
1978
(foto C. Papi/La Presse).
- Chi parlava di lotta armata?
«Un gruppo di intellettuali. Te ne accorgi dopo, i meccanismi sono
sempre gli stessi: indipendentemente dalle idee, al vertice c’è una
casta. Loro teorizzano, gli "utili idioti" fanno. Tra questi
c’ero anch’io. Intanto mi ero trasferito a Milano. Di giorno
insegnavo, di notte le riunioni e le prime azioni: un paio di rapine
di armi, l’incendio di un’impresa che finanziava il colpo di stato
in Cile. Ma, quando sto per incendiare un altro capannone, mi
arrestano con in tasca gli appunti della rapina del giorno prima».
- Perché non li ha gettati?
«Non ne potevo più: lavoravo, non mangiavo, di notte non dormivo,
avevo difficoltà economiche. E soprattutto, ero solo. Per gli altri
non esistevo come persona, ero un ingranaggio. Non ricevevo nessuna
comprensione. Avevo anche tentato il suicidio. Forse è per quello che
non me ne sono liberato».
«Tre anni di carcere. Intanto la lotta armata si disgrega. Un
movimento di 120 anni in due-tre anni finisce nell’ironia generale.
È stato l’inganno più grande della mia vita, però la
consapevolezza dello sfruttamento resta un’acquisizione importante.
In carcere mi immergo in quella classe povera che avevo difeso senza
conoscerla. Me ne faccio portavoce, ma le mie trattative per i
detenuti non piacciono. Vengo trasferito in un carcere speciale. Le
prime due settimane sono fatte di botte e torture. C’era una
violenza incredibile. È il messaggio più diseducativo: come potrei
rispettare la legge, se non la rispettate voi? Accumulo una forte
rabbia. I compagni fuori si organizzano e nasce il gruppo "Senza
galere", che pubblica le mie lettere».

Un’immagine simbolo degli anni del
terrorismo: il 17 marzo 1978
un lettore sconvolto dalla notizia del rapimento di Aldo Moro,
avvenuto il giorno precedente
(foto G. Giansanti/Grazia Neri).
- E quando esce dal carcere?
«Mi ricongiungo agli amici di un tempo. Nascono i Pac. Il clima è
cambiato, l’ipotesi rivoluzionaria è sconfitta e se ne sente tutta
la frustrazione. Pensavamo: "Non cambieremo il mondo, almeno
cambiamo noi". Comunismo diventa un modo per sottrarsi a un mondo
che non ci va. La maggior parte dei compagni è in galera ed è
proprio sulle condizioni carcerarie che si concentrano i Pac. Dopo l’omicidio
del maresciallo Santoro a Udine, prendo le distanze. Seguono altri
omicidi e ferimenti, terminati con l’arresto del gruppo. Capisco che
con l’illegalità si finisce male: un’evidenza, prima che una
scelta etica. Ma vengo coinvolto in un altro processo. Di nuovo
galera: uscirò dopo 12 anni di carcere preventivo».
- È il tempo del ripensamento.
«Sì, con alcuni ex compagni nasce la dissociazione. Il movimento
si allarga e diviene fondamentale per la fine del terrorismo. È anche
un periodo di paura per le continue minacce: temiamo per la vita e ci
guardiamo le spalle a vicenda. Constato che chi ci aiuta di più sono
i cattolici: don Di Liego della Caritas e soprattutto uno
straordinario cappellano, don Luigi Mélesi, vicino a Martini.
Riprendo la frequentazione biblica e rileggo i temi della speranza e
del perdono dentro la condizione carceraria. È l’elemento più
tipico della prigione, dover fare i conti con sé stessi. Pensi:
"Forse da qui non esco più ed è per colpa mia". Sei il tuo
nemico. Realizzi il male fatto agli altri. È la condizione di tutta
la Scrittura. Ezechiele dice: "Io non voglio che l’empio
muoia". E capisci che davanti a te, qualunque cosa tu abbia
fatto, c’è sempre la possibilità di un nuovo progetto».
- Quale conseguenze ha questo lavoro interiore?
«Accorgersi che, anche in carcere, l’altro c’è. Rileggo il
Samaritano: non c’è mondo dove io non possa farmi prossimo. Il
carcere è il primo luogo dove comunicare agli altri il perdono che
sperimento. È il compito che mi sono scelto oggi, a tempo pieno».
Giusy Baioni