ANNO
PAOLINO - PAOLO E
GLI ORTODOSSI L’icona della
Parola
di Vladimir Zelinskij
Nell’iconografia
delle Chiese orientali, san Paolo è spesso raffigurato in situazioni
e avvenimenti che sicuramente non hanno fondamento storico. Caso
tipico è la sua presenza durante la Pentecoste. Questo succede
perché nel mondo delle icone non è importante la rappresentazione
del dato di realtà, quanto piuttosto il suo significato spirituale.
L'icona
ortodossa, di solito, non cerca di riprodurre la somiglianza del
ritratto o esprimerne l’esatta verità storica. L’icona ci svela un’altra
realtà, ci insegna a vedere le persone che hanno vissuto il passato nel
loro oggi eterno – anzi, nel mondo che verrà, quando Dio sarà tutto
in tutti. Gli abitanti di quel mondo non seguono sempre la storicità
del fatto, ma si conformano alla verità dello Spirito, prendendo «parte
nella gioia» del Signore (cfr. Mt 25). Così, in un’antica icona
dedicata alla Pentecoste, vediamo san Pietro di fronte a san Paolo nel
cerchio degli altri apostoli e sappiamo che Paolo quel giorno non era
presente. In un’altra, Gesù stesso dà il calice all’Apostolo dei
gentili – un avvenimento che non ebbe mai luogo. Ma immagini come
queste sono nate all’interno della visione orientale della figura dell’Apostolo
dei gentili, per il quale l’incontro con Gesù sulla via di Damasco è
diventato anche comunione con lo Spirito Santo, sorgente inesauribile
della fede.
«Il Consolatore... vi ricorderà tutto ciò che ho detto...», dice
Gesù (Gv 14,26). Ma che cosa poteva ricordare Saulo di Tarso, il
fariseo (cfr. At 26,5), che non aveva mai incontrato il suo Maestro
durante la sua vita terrena? Dove aveva potuto sentire le parole dette e
non dette di Gesù? Sembra che Paolo sappia tutto fin dall’inizio,
come se gli fosse stato insegnato dal Maestro interiore: «Senza
consultare nessun uomo, senza andare a Gerusalemme da coloro che erano
apostoli prima di me...» (Gal 1,16). Quell’incontro con Gesù faccia
a faccia aveva anche un suo significato pneumatologico: il risveglio o
la rivelazione nel cuore dell’Apostolo (e potenzialmente in ogni
persona umana) – in cui lo Spirito scopre, manifesta, risveglia Cristo
come Figlio di Dio – «del mistero nascosto da secoli nella mente di
Dio, creatore dell’universo» (Ef 3,9).

San Paolo insieme agli altri apostoli
durante la Pentecoste
(foto Patriarcato di Mosca).
Paolo ci insegna che ogni essere umano porta quel mistero nel proprio
cuore e può illuminarlo con la luce di Cristo. «Il suo cuore era
quello di Cristo, la cronaca dello Spirito Santo, il libro della grazia»,
dice san Giovanni Crisostomo. Cristo abitava in Saulo prima che lui
fosse diventato Paolo, dice lui stesso. «Quando Colui che mi scelse fin
dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia si compiacque di
rivelare a me il suo Figlio perché lo annunziassi ai pagani...» (Gal
1,15-16). Ma questa predestinazione è universale. Il mistero rivelato
si esplica nella predicazione. Ciò che è nascosto nella profondità di
Dio è affidato agli uomini. D’un tratto san Paolo riesce a
riconciliare l’ineffabile intimità della fede con la missione ai
popoli, con il servizio alla gente, con la cattolicità della Buona
Notizia destinata a tutti. Il segreto della fede in Cristo che vive
nella sua Parola e nello Spirito che la "ricorda", la apre e
la realizza, non è un tesoro da custodire nell’oscurità, ma una
ricchezza da scoprire e da manifestare «ai suoi santi, ai quali Dio
volle far conoscere la gloriosa ricchezza di questo mistero in mezzo ai
pagani, cioè Cristo in voi, speranza della gloria» (Col 1,26-27).
La "gloriosa ricchezza" del Signore rivelata a Paolo l’ha
iniziato a ragionare nello Spirito e a conoscere il mondo nella Parola.
Alla domanda del Libro della Sapienza e del profeta Isaia: «Chi infatti
ha conosciuto il pensiero del Signore in modo da poterlo dirigere?»,
Paolo risponde: «Ora, noi abbiamo il pensiero di Cristo» (1Cor 2,16).

San Paolo visto da Andrej Rublev, icona
conservata
al Museo statale di San Pietroburgo
(foto Scala, Firenze).
In
un attimo, come è spesso da lui, tutta la visione trinitaria si svela
davanti a noi. Il "pensiero di Cristo" (noun Christou)
– il modo di sentire, di intendere, di vedere le cose come le vede e
le vive Cristo stesso – significa che il nostro intelletto e «il
Cristo che abita per la fede nei nostri cuori» (Ef 3,17) hanno qualche
sostanza in comune e questa sostanza si chiama Spirito Santo. La Sua
presenza non deve essere accettata e creduta solo come una dottrina
stabilita, ma conosciuta dall’interno con il "pensiero di
Cristo" o con la sapienza messa nei concetti. In altre parole, la
nostra conoscenza di Dio può essere paragonata all’icona – vera e
al tempo stesso trasparente –, poiché essa ci rivela il mistero della
Trinità che c’incontra e ci ama. E quando invochiamo il nome del
Padre, del Figlio e dello Spirito Santo siamo proprio al centro del
Mistero aperto – quello dell’amore –, spalancato davanti a noi, ma
anche dentro di noi. Siamo al centro di questa luce che, come dice un
inno bizantino, neanche i Cherubini e i Serafini sono capaci di
sopportare.
Questa rivelazione del mistero trinitario vissuto nell’intelletto
umano – che è stata data all’Apostolo dei pagani – trova il suo
sviluppo originale nella teologia di Massimo il Confessore (VII sec.).
Il concetto paolino suggerisce a Massimo una sintesi della
"filosofia cristiana" completamente originale e organica.
Nella sua prospettiva il «pensiero di Cristo che ricevono i santi» si
situa nella visione trinitaria attraverso la presenza dello Spirito
Santo, «in quanto guida di sapienza e di conoscenza» (Centurie
gnostiche, II,63) e con l’apertura verso il Padre, che «si trova
naturalmente tutto intero, indiviso, in tutta la Sua Parola» (II,71).
«Il pensiero di Cristo... non sopraggiunge per la privazione della
nostra potenza intellettuale» (in altre parole i nostri sensi
conservano le loro forze naturali), ma come «illuminando mediante la
propria qualità la potenza del pensiero...». La potenza del pensiero
per san Paolo, secondo san Massimo, si trova nel suo logos,
cioè, nell’idea o nel principio di ogni cosa, di ogni essere. Il logos
costituisce la natura spirituale di qualsiasi creatura o, secondo le
parole del vescovo ortodosso Basile Osborn, la sua «struttura interiore».
Qui non si tratta dell’analogia fra il divino e l’umano, ma del
primo paradosso della conoscenza di Dio, che si realizza nel
"pensiero di Cristo". Così pensiamo ciò che non può essere
pensato, tocchiamo ciò che non può essere toccato né con i sensi né
con l’intelletto.

Un’icona russa che illustra i viaggi di
Paolo
(foto P. Ferrari/Periodici San Paolo).
"Il pensiero di Cristo" di san Paolo è uno dei tanti nomi
del tesoro scoperto; significa la vera e propria comunione intellettuale
– o comunione della ragione che si realizza nello Spirito Santo, il
quale illumina ogni cosa vissuta nel pensiero. La mente si comunica al
mistero di Cristo, al pensiero di Cristo nascosto in tutte le cose
create, visibili e invisibili, e «contemplate con l’intelletto nelle
opere da Lui compiute» (Rom 1,20). L’arte della conoscenza mistica è
l’arte della contemplazione: il dono di vedere tutte le cose nello
Spirito o nel "pensiero di Cristo" immesso in tutte le cose.
Una
volta san Paolo fece ai suoi discepoli di Efeso una domanda: «Avete
ricevuto lo Spirito Santo quando siete venuti alla fede?». Ed essi,
come racconta il libro degli Atti degli Apostoli, risposero: «Non
abbiamo nemmeno sentito dire che ci sia uno Spirito Santo» (19,1-2).
Nel Vangelo lo Spirito Santo rimane ancora soltanto una Persona
promessa. Con la rivelazione paolina l’immagine del Dio Trino comincia
a chiarirsi. È stato lui, Paolo, che ha trovato un linguaggio umano
almeno per sfiorare e far sentire l’azione e la presenza dello Spirito
Santo.
Prima di tutto come amore divino: «L’amore di Dio è stato
riservato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci ha dato»
(Rom 5,5). «Il suggello dello Spirito Santo» (Ef 1,13) che noi
riceviamo ci porta la libertà in Cristo (2Cor 3,17) e la diversità dei
carismi e dei ministeri. «A ciascuno è data una manifestazione
particolare dello Spirito per l’utilità comune» (1Cor 12; 4.7). Si
tratta dell’utilità che si realizza nella Chiesa come corpo di Cristo
(cfr. Ef 1,23).
L’opera dello Spirito, secondo Paolo, è la fede che si apre alla
rivelazione di Dio in Gesù Cristo. Ma questa rivelazione è anzitutto
relazione con Lui e coinvolge tutta l’anima, tutto il nostro essere. «Lo
Spirito di Dio abita in voi», scrive Paolo ai Romani che hanno ricevuto
il dono della fede (8, 27). Quando la fede manca o il peccato s’impossessa
dell’anima umana, lo Spirito «viene in aiuto alla nostra debolezza»
(Rom 8,26) e fa crescere i suoi frutti («amore, gioia, pace…», Gal
5,22). Con i frutti dello Spirito «noi veniamo trasformati in quella
medesima immagine» (2Cor 3,18), che è l’immagine di Cristo. Questa
visione della trasformazione (o della trasfigurazione) dell’essere
umano ha comportato la nascita di una delle esperienze più profonde
nella spiritualità orientale: quella della deificazione, della
somiglianza dell’uomo al Dio incarnato.

Particolare di un’icona serba con i
santi Pietro e Paolo,
conservata nella Biblioteca vaticana
(foto Scala, Firenze).
«Dio
è diventato uomo affinché l’uomo possa diventare dio per mezzo della
grazia», dicevano i Padri della Chiesa. La radice di questa idea la
troviamo già in san Paolo. Siamo figli di Dio, afferma lui. «E se
siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo… Io
ritengo, infatti, che le sofferenze del momento non sono paragonabili
alla gloria futura che dovrà esser rivelata in noi» (Rom 8,14-18).
Un’altra luce appare in queste righe: un regno che viene, che si
costruisce in noi attraverso le sofferenze degli «eredi di Dio». Nel
lungo e difficile processo di trasformazione delle nostre anime e dei
nostri corpi per partecipare alla gloria del Regno, all’uomo è
assegnata la parte più attiva. L’uomo diventa un collaboratore di Dio
e questa collaborazione si fa nel travaglio del suo cuore e del suo
Spirito. L’uomo si arrende, si abbandona puro e libero all’azione
dello Spirito che lo conduce alla gloria, alla eredità in Dio, alla sua
trasfigurazione in Gesù Cristo, nostro Signore.
Nella
tradizione orientale questa collaborazione assume la forma della
preghiera della purificazione del cuore, della lotta notturna e cosmica «contro
gli spiriti del male» (Ef 6,12), per prepararsi ad accogliere Dio come
Abramo accolse la venuta dell’Ospite Divino. Questa lotta è dura, ma
lo Spirito è sempre con noi e, come dice san Paolo, «intercede con
insistenza per noi, con gemiti inesprimibili». L’amore di Dio ci
prepara all’eredità di Dio, il Suo Regno. Perché l’ultima
tramutazione sarà la trasfigurazione di questo mondo caduco nel Regno
di Dio (che inizia sempre dal cuore umano). Troviamo una eco di questa
lotta nella preghiera ortodossa prima della comunione: «Cristo Gesù è
venuto in questo mondo a salvare i peccatori, dei quali il primo sono io»
(1Tm 1,13-14).
Quale era la Divina Provvidenza nei confronti di Paolo? Dio ce l’ha
mandato come modello perfetto, modello «dell’uomo perfetto, nella
misura che conviene alla piena maturità di Cristo» (Ef 4,13). Lui è
diventato un’icona della Parola, mentre la Madre di Dio rimane un’icona
del silenzio. Paolo è il mistero che parla, Lei è il mistero
silenzioso «serbato nel Suo cuore» (cfr. Lc 2,19). In Maria e in Paolo
si sono realizzate le parole di Cristo relative alla «sorgente di acqua
che zampilla per la vita eterna» (Gv 4,14).
Dissetata da quest’acqua la Chiesa ortodossa in uno di suoi inni (tropari)
chiama Paolo di Tarso «il suggello e la corona degli apostoli che,
chiamato alla fine, con lo zelo ha superato tutti».
Vladimir Zelinskij
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