Dossier – Apocalisse: l’oro e
il diaspro L’Apocalisse?
Vademecum
della vita della Chiesa
di Paolo Pegoraro
Un libro liturgico, che doveva aiutare
l’assemblea dei fedeli a riflettere sul proprio presente come un tempo
già indirizzato verso il futuro della salvezza in Cristo. Questa è l’Apocalisse
secondo uno dei suoi massimi studiosi, il biblista Ugo Vanni.
Padre
Ugo Vanni è un entusiasta: la voce bassa ma appassionata racconta un
amore che va al di là dello studio. Nato in Argentina nel 1929 e
rientrato in Italia appena tre anni dopo, entra giovanissimo tra i gesuiti
che lo fanno specializzare in Lettere antiche per poi destinarlo agli
studi biblici. Per il dottorato di ricerca, diretto da padre Albert
Vanhoye, sceglie di accostarsi alla struttura letteraria minima dell’Apocalisse.
«Quando cominciai, nel 1964», racconta, «sembrava di essere nel
deserto. Come bibliografia c’era solo qualche articolo, commentari anche
buoni, ma rari studi scientifici. Oggi la situazione è completamente
rovesciata, i dottorandi che scelgono l’Apocalisse sono in imbarazzo a
trovare un tema non ancora affrontato».
- Che cosa l’attirò in questo libro?
«Anzitutto l’aspetto letterario. È scritto in un greco irregolare,
anomalo, eppure è chiaro fin dalle prime pagine che appartiene a una
persona colta e raffinata: fa una presa immediata sul lettore. E poi mi
affascinò il suo mondo teologico particolarmente forte, capace di
abbracciare la storia della salvezza per intero. Nel corso di trent’anni
di lezioni al Biblico ho avuto modo di approfondirlo ed è diventata un po’
la passione della mia vita... un compagno esigente, a volte capriccioso,
ma molto arricchente».

- L’Apocalisse è entrata subito nel canone neotestamentario?
«Nella Chiesa occidentale sì, mentre ci sono state grosse difficoltà
nella Chiesa orientale perché non era chiara la sua dipendenza
apostolica. Nel III secolo san Dionigi di Alessandria, ad esempio,
affermava con vivacità che la trovava incomprensibile e non credeva alla
sua provenienza giovannea; però non la proibì perché aveva notato il
suo impatto pastorale positivo sulla gente. Il punto di riferimento per
una accoglienza piena dell’Apocalisse è il VII secolo, con Andrea di
Cesarea. Purtroppo però, a causa di questo ritardo, non abbiamo un
commento all’Apocalisse di san Giovanni Crisostomo...».
- Quali sono state le principali tappe della sua interpretazione?
«Inizialmente c’è stata un’esegesi letterale, quella del così
detto chiliasmo o millenarismo, che voleva ravvisare i tempi
indicati nel capitolo 20, creando difficoltà, tensioni e nuocendo alla
fama dell’Apocalisse. Con sant’Agostino comincia un’interpretazione
più ampia, attenta al simbolo, più ecclesiale. Infine l’esegesi
storico-critica dell’Ottocento ha cercato le "origini" del
testo scomponendolo in un’infinità di fonti: un lavoro acuto, che resta
di riferimento per avvicinarne la struttura letteraria, ma debole per
quanto riguarda la lettura complessiva. Oggi si è tornati a una visione
unitaria, che sottolinea la genialità con cui l’autore riprende e
trasforma altre fonti».

- L’Apocalisse trabocca d’immagini talmente suggestive che distrae
dal suo nucleo. Qual è il basamento su cui poggia questa fitta chioma
di simboli?
«A fondamento c’è una concezione relativamente semplice che
sostiene un edificio complesso, ma non di una complessità confusa: è la
complessità di un’opera d’arte. Per fare un esempio, anche le opere
di Kandinskij o Guernica di Picasso lasciano sconcertati chi vi si
accosta senza un’iniziazione, ma se una guida c’introduce nel mondo
dell’artista, si resta stupefatti ed entusiasti. Lo stesso avviene per l’Apocalisse.
La sua traccia di fondo è l’essere un libro liturgico, destinato cioè
alla lettura liturgica (1,3) durante l’assemblea domenicale, come
specifica 1,10. Il testo stesso segue la traiettoria di quella che era la
celebrazione domenicale: una parte in cui si confessavano i peccati –
come ci dicono Giustino e la Didaché –, una parte in cui si
ascoltavano letture dell’Antico e Nuovo Testamento per illuminare la
vita della comunità, e alla fine la celebrazione dell’eucaristia.
Queste stesse parti sono ravvisabili nella struttura dell’Apocalisse.
All’inizio (1-3) c’è una purificazione dell’assemblea a contatto
diretto con Cristo risorto, infatti nelle lettere alle "sette"
Chiese il Cristo parla in prima persona. Nella seconda parte (4-22,5) l’autore
insegna alla Chiesa a interpretare le sue vicende, perché terminata la
liturgia ognuno tornerà a contatto con la vita: allora l’autore, che ha
ben presente la complessità della storia, presenta una molteplicità di
"forme a priori" di lettura, cioè alcuni quadri simbolici che,
applicati alle situazioni contingenti, le illuminano e fanno capire le
implicazioni religiose – non generali! – valide per il presente della
comunità. Nella conclusione (22,6-21) troviamo un suggestivo dialogo tra
Gesù, l’angelo interprete, Giovanni, lo Spirito e l’assemblea. Nel
cuore di questo dialogo si parla con insistenza del "dono dell’acqua
della vita" (22,17) con riferimento alla sacramentalità della
Chiesa: probabilmente era un invito del presidente ad accostarsi all’eucaristia».

- Oggi che spazio occupa l’Apocalisse nell’anno liturgico?
«L’Apocalisse è tornata a mordere la realtà della vita della
Chiesa. Una delle caratteristiche letterarie di questo libro sono le dossologie
– quasi dei salmi, potremmo dire – che non troviamo mai negli
antichi manuali greci di liturgia. Dopo il Concilio invece sono state
riprese, anche se talvolta "accorpate" tra loro in modo poco
felice. Inoltre si moltiplicano gli esercizi spirituali predicati sull’Apocalisse,
e varie diocesi l’hanno scelta come libro guida da meditare nel corso
dell’anno. Impensabile, negli anni Settanta».
- Il Futuro è una categoria scomparsa dalla riflessione filosofica
postmoderna. Come riconciliare una modernità appiattita sul presente
con una visione vivificante dell’escatologia?
«In passato, nell’Apocalisse tutto era rimosso e proiettato sul
futuro: una tendenza per lo più superata, perché se tutto è
escatologico niente lo è davvero. Io personalmente porterei l’Apocalisse
nel presente sulla linea dell’escatologia realizzata dal quarto Vangelo,
cioè: l’assemblea liturgica è interessata a comprendere il proprio
presente, però è un presente indirizzato, poggiato su un nastro di
scorrimento. È il presente di tutta la storia della Chiesa in movimento
verso un futuro che c’è. Qualcuno lo nega, ma secondo me non lo si può
sostenere se si tiene presente la struttura letteraria del libro, che si
sviluppa verso una convivenza reale, vertiginosa, fra Dio e il suo popolo.
Proprio per questo la Chiesa è chiamata "la Fidanzata" durante
l’avvicendarsi della storia della salvezza e "la Sposa" quando
giunge – nella meraviglia della Gerusalemme nuova (21,1-22,5) – alla
conclusione escatologica».
Paolo Pegoraro
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