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Il talento portoghese
non separa la carriera dalla famiglia e dà un consiglio ai giovani: «Comportarsi
in campo e nella vita sempre correttamente, avendo anzitutto rispetto per
il prossimo».
ono
sempre più rari, nel calcio odierno, i campioni di tutti, cioè quei
calciatori che, incarnando il bello del gioco, appartengono all’intera
popolazione di appassionati, a prescindere dalla maglia. Tra queste
eccezioni c’è sicuramente Manuel Rui Costa, un gentiluomo degli stadi,
passato in estate al Milan dopo una lunga milizia nella Fiorentina.
Estroso, ricco di classe, corretto negli atteggiamenti e
nei discorsi, rispettoso di compagni e avversari, spesso geniale nelle sue
giocate, il portoghese è stato voluto espressamente dall’allenatore
Fatih Terim come regista offensivo della squadra rossonera e Rui non ha
faticato a conquistare le simpatie anche in una città esigente come
Milano.

- E allora, Rui, raccontaci il segreto di questo tuo
fascino universale.
«Ma è proprio sicuro che sono così gradito anche agli
avversari?».
- Hai forse un’impressione diversa?
«Beh, diciamo allora che molto aiuta il ruolo: non devo
picchiare nessuno».
«No. La più grande delusione della mia vita fu un’ingiusta
espulsione rimediata in un Portogallo-Germania decisivo per le
qualificazioni ai Mondiali. A fine gara l’arbitro mi chiese scusa, ma io
non sapevo che cosa farmene».
- Tu sei nato a Lisbona, ma sei dei nostri da tanto
tempo.
«Sono arrivato nel ’94, quindi gioco l’ottavo
campionato italiano».
- Eri una bella scommessa, all’epoca.
«Sì, una scommessa. Ma fino a un certo punto, perché
mi aveva già adocchiato il Barcellona. Pareva tutto fatto, quando
successe una rivoluzione nel club. La Fiorentina mi portò via per dieci
miliardi».

Dopo l’infortunio alla prima
giornata di campionato,
Rui ha ripreso le redini del Milan. Qui è contrastato da Gianluca
Pessotto
- Il tuo Benfica se la passava male...
«Ho cambiato due squadre e sempre per esigenze di
cassa. Io sono un fedele, non sarei mai andato via dalla mia città, così
come non avrei lasciato Firenze. Una volta accertato che la mia cessione
era di vitale importanza per Cecchi Gori, ho preteso solo una cosa: poter
scegliere la nuova squadra».
«Perché mi ha sempre dato la sensazione di essere il
club meglio organizzato, perché Terim ama il bel calcio e perché ho
maggiori possibilità di vincere lo scudetto. Il mio grande amico
Batistuta, lasciata la Fiorentina, ha centrato l’obiettivo al primo
tentativo. Chissà che non capiti lo stesso a me».
- Nel tuo albo d’oro c’è uno scudetto portoghese
col Benfica.
«Chiaro, è il club portoghese più importante. Logico
che vinca parecchi scudetti. Io venni via immediatamente dopo la conquista
del ’94. Ma il ricordo più bello della mia carriera resta il Mondiale
Under 20 vinto sul Brasile allo stadio Da Luz, il più grande della
mia città, davanti a centotrentamila portoghesi impazziti. Finì ai
rigori e io realizzai quello decisivo del 4-2».
- Un’impresa mondiale che il Portogallo può ripetere
in Giappone?
«Siamo una buona generazione, con Figo, Couto e diversi
altri fuoriclasse. Un Mondiale è come una lotteria, staremo a vedere.
Fondamentale è esserci. Prima, comunque, ci sarebbe lo scudetto col Milan.
Io con Pippo e Sheva: che cosa c’è di meglio?».

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Col suo
primo club, il Benfica. |
Con la
maglia della Fiorentina,
la sua ex squadra |
«Anzitutto Platini, poi Maradona e Van Basten. Ma
ricordo che una volta, sostituito, rimasi in panchina per aspettare la
maglietta di Roberto Baggio. E oggi sono davvero onorato di aver giocato
insieme con Gabriel Batistuta».
«Figlio unico, papà ex attaccante di campionati
minori, uno zio, Antonio, che ha il suo negozio di ciabattino nella stessa
casa dei miei genitori: due camere da letto in cui si respirano valori
come la sincerità, l’onestà, la solidarietà, l’affetto familiare.
All’epoca pregavo i miei di darmi un fratello, non riuscivo a capire che
proprio non avrebbero potuto allevarci, in due».
«Ehm, poca roba. Passavo le mie giornate al Ginasio,
il club sportivo del quartiere. Ping-pong, pattini, calcetto. Finché
papà capì che avevo il pallone nel sangue e con l’aiuto dello zio
Antonio mi procurò un provino per il Benfica. Ricordo la data: 13 marzo
1982, ore 10. Campo 4, senza erba. Ma al di là della rete di recinzione c’era
sua maestà Eusebio, il più famoso calciatore portoghese. Io toccai due
palloni: sul primo dribblai in pallonetto due avversari più forti, sul
secondo decisi di andare in porta da solo e ci riuscii saltandone tre. Fu
sufficiente a Eusebio per prendermi nelle giovanili».

Nella Nazionale portoghese, con
cui andrà al Mondiale.
- E da allora tutto facile?
«Macché, una faticaccia. Fra l’altro, al primo
allenamento venni espulso proprio da Eusebio, che non tollerava parolacce.
Non sapevo che cosa dire a mio padre, così mi inventai un infortunio e
uscii dal campo zoppicando».
- La classica bugia a fin di bene.
«Come quella volta che volevo a tutti i costi vedere
alla Tv la semifinale di Coppa dei Campioni Benfica-Steaua Bucarest, ma
ero ricoverato in ospedale in attesa dell’operazione di appendicite.
Beh, vidi che gli esami del mio compagno di camera erano negativi e allora
scambiai le cartelle. Così quando vennero i medici dissi che mi sentivo
bene e loro trovarono conferma nelle analisi. Mi dimisero in tempo per la
partita, il Benfica vinse 2-0 e io ai gol esultavo e vomitavo. Poi l’appendice
non me la sono più tolta».
- Il Benfica a un certo punto ti diede in prestito a
una squadra di Serie C.
«Quante lacrime! Avevo diciott’anni, chiesi il motivo
della cessione e mi risposero che mi voleva solo il Fafe. Eppure fu un
anno importante, i tifosi mi adottarono, mi chiamavano "il
principino". E a fine stagione tornai al Benfica per essere incluso
nella rosa di prima squadra».
- Di Firenze qual è il ricordo migliore?
«Di ricordi ne ho tanti. A livello calcistico, direi la
festa notturna allo stadio Franchi dopo la conquista della Coppa Italia. A
livello privato, l’amicizia con i coniugi Batistuta. Nessuno sa che mia
moglie, tempo fa, perse un bambino al quinto mese di gravidanza. Beh,
Gabriel e sua moglie Irina ci furono particolarmente vicini e ricordo l’abbraccio
intensissimo di Batistuta negli spogliatoi dello stadio quando mi dedicò
il suo primo gol dopo lo sfortunato episodio».

Qui è contrastato da Mark
Iuliano.
- Comunque, di piccoli Rui Costa ce ne sono due...
«Nati in Portogallo. Felipe ha sei anni e giocherebbe
sempre a pallone. È più forte con l’italiano che col portoghese. L’altro
si chiama Hugo e ha due anni: per ora cerca di imitare il fratello».
- Come passi il tempo libero nella metropoli milanese?
«Con loro, soprattutto. Avendo per obiettivo lo
scudetto, ho limitato molto le serate fuori casa. In famiglia abbiamo una
passione per i puzzle: costruiamo cose enormi, dai tre ai cinquemila
pezzi. Poi vengono i videogames, sempre con loro».
«Sì. I miei miti sono i vecchi U2 e Brian Adams».
«Ho perso l’abitudine di frequentarlo, ma resto un
appassionato, quindi uso molto il videoregistratore. La mia pellicola cult
è Ben Hur».
«Leggo le biografie dei grandi personaggi del passato.
Per me il più affascinante resta Napoleone».
- Il regalo più bello che hai ricevuto e il più
costoso che hai fatto?
«Ho comprato la casa di Lisbona della mia infanzia
unendola all’appartamento del piano sovrastante, molto più ampio. C’è
una camera sempre riservata per me, nelle altre vive il resto della
famiglia, compresa la nonna che ha più di settant’anni».
- Consigli agli aspiranti Rui Costa?
«Comportarsi in campo e nella vita sempre
correttamente, avendo anzitutto rispetto per il prossimo. E poi affrontare
il calcio con serietà e tenacia. Ho visto molti compagni di squadra
perdersi per strada nonostante avessero più talento di me. Gli è mancata
la voglia di arrivare, non hanno saputo fare sacrifici nel momento
decisivo».

SETTE ANNI A
FIRENZE
Cesar Costa Rui Manuel è nato a
Lisbona il 29 marzo 1972. Alto 180 cm, pesa 74 kg. Cresciuto nel
Benfica, ha vinto uno scudetto, una Coppa del Portogallo e, con la
sua Nazionale, il Mondiale Under 20 nel 1991, perdendo la finale
europea Under 21 nel 1994 contro l’Italia. È approdato in
estate al Milan, che lo ha pagato 85 miliardi, serviti alla
Fiorentina per ripianare un pazzesco deficit economico. In viola
ha giocato sette stagioni con il seguente ruolino:

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