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«Alì
Shariati, un filosofo morto due anni prima dell’avvento del regime,
diceva: "Se non potete eliminare l’ingiustizia, allora raccontatela
a tutti"». Shirin Ebadi ha riassunto in una frase il proprio
impegno. La prima donna musulmana a ricevere il premio Nobel per la pace,
nel 2003, è stata accolta ad Alba da un fiume di domande il 23 ottobre.
Era l’ospite d’onore dell’evento speciale organizzato da Albalibri.
Carlo Panella, con Nico Orengo, Luciano Bertello e Giovanni Tesio del
comitato scientifico della manifestazione, l’ha accolta «oltre che come
Nobel, come personaggio in sintonia con Alba: una donna che non è
militante politica ma che si oppone a questo totalitarismo così simile al
nazismo».
Negli incontri con gli studenti del Liceo classico e con la
cittadinanza, Ebadi ha colto l’occasione della recente pubblicazione per
Rizzoli del proprio ultimo libro, La gabbia d’oro, per
parlare dell’Iran e del regime che calpesta ogni giorno diritti civili.
Nella Gabbia d’oro, Shirin Ebadi usa la forma del romanzo per
raccontare la storia del proprio Paese attraverso quella di tre fratelli,
Abbas, Javad e Alì, coinvolti in modo diverso nella rivoluzione islamica
che nel 1979 trasformò l’Iran in un regime teocratico. Nel visitare la
redazione di Gazzetta, ha risposto ad alcune domande, accompagnata
dalla traduttrice del libro, Ella Mohammadi.

Foto Marcato.
- Il Nobel assegnatole nel 2003 ha cambiato il suo lavoro per i
diritti civili? Che cosa è cambiato, inoltre, con l’avvicendarsi
del Governo di Ahmadinejad?
«A livello internazionale il Nobel mi ha dato la possibilità di far
sentire la mia voce, di denunciare ciò che avviene nel mio Paese. Manon
ha facilitato il mio lavoro in Iran: continuo a essere censurata da tutti
i mezzi di comunicazione, televisione e radio di Stato. Non diedero
neppure la notizia del Nobel, cinque anni fa, se non due giorni dopo, in
un brevissimo inciso, perché la notizia era ormai giunta in altri modi e
la gente protestava per questo silenzio. La censura mi colpisce ormai
anche fuori dai confini, per l’enorme potere che l’Iran ha sul resto
dei Paesi islamici: qualche giorno fa avrebbe dovuto esserci un grande
convegno sui diritti civili in Malesia, dove io avrei dovuto essere il
relatore principale. Ma il Governo iraniano ha detto a quello malesiano
che i rapporti tra i due Paesi sarebbero stati compromessi se avessi
parlato pubblicamente: così il convegno è stato annullato, con grandi
proteste delle organizzazioni per i diritti umani dell’Asia».
- E nel suo Paese? C’è una società civile aperta al dialogo? Come
si oppongono, le donne, al regime?
«Con la rivoluzione islamica la situazione è peggiorata: la vita di
una donna vale la metà di quella di un uomo, la sua testimonianza in un
processo vale la metà; una donna sposata, per fare qualsiasi cosa, deve
avere il permesso del marito. Questa oppressione risalta ancora di più se
si pensa che il 65% degli studenti sono donne, che le donne mantengono
ruoli di alto livello, sono medici, sono nell’Amministrazione statale:
uno dei vice di Ahmadinejad ha come stretto collaboratore una donna. A
dispetto di questo alto livello di cultura, la discriminazione è
fortissima e le battaglie che portiamo avanti fanno impercettibilmente
cambiare qualcosa, poco per volta: per esempio la tutela del minore è
cambiata a favore della madre, negli ultimi anni».
- Da donna di legge – Ebadi è stata ricercatrice universitaria in
legge, magistrato fino all’avvento del regime e oggi lavora come
avvocato per i diritti civili e musulmana – come vive l’assimilazione
della religione al diritto dei Paesi islamici?
«Il regime dice che le sue leggi arrivano dall’Islam: alle proteste
della popolazione, viene opposta la religione. Ma questo è sbagliato.
Ogni religione, come ogni ideologia, è passibile di interpretazione:
così avviene per il cristianesimo, interpretato variamente da Chiese
diverse; così sta accadendo per l’Islam. Nei Paesi islamici c’è una
diversa interpretazione del Corano applicato alla legge: in Arabia
Saudita, alle donne è addirittura impedito di guidare l’auto. Al
contrario, in altri Paesi, ci sono stati primi ministri donne, come in
Bangladesh o in Indonesia; in Marocco e Tunisia la poligamia è vietata.
Nel mio Paese si usano pene, come il taglio della mano, che in Algeria o
in Egitto vengono proibite. La legge ha introdotto discriminazioni che
originariamente, nei testi e nella tradizione, non sono previste: si può
invece arrivare alla parità tra l’uomo e la donna e alla democrazia,
interpretando diversamente l’Islam. Ciò che danneggia le donne non è
la religione, ma qualcosa di più sottile: è la cultura patriarcale, che
vige anche fuori dai Paesi islamici, persino in Europa».
- Come vede, lei, le donne in Occidente?
«La situazione per le donne è più semplice, ma le discriminazioni
esistono; penso a un convegno in Danimarca cui fui invitata qualche anno
fa: distribuivano una spilla a forma di euro, ma con uno spicchio
mancante. Lo scopo di questa immagine era protestare perché a parità di
mansioni, una donna, anche in Danimarca, guadagna un quarto in meno di un
uomo. Così ho pensato che ci sono discriminazioni contro le donne in ogni
parte del mondo: voi in Italia avete mai avuto un presidente della
Repubblica o un primo ministro donna?».
Daniela Scavino
«Per il suo impegno
nella difesa dei diritti umani e a favore della democrazia.
Perché si è concentrata specialmente sulla battaglia per i
diritti delle donne e dei bambini»: sono le motivazioni dell’Accademia
di Svezia per assegnare, cinque anni fa, il Nobel per la pace a
Shirin Ebadi, undicesima donna da quando il premio è stato
istituito nel 1903, e prima musulmana. Nata nel 1947, laureata in
legge nel 1969 all’Università di Teheran, nominata presidente
di tribunale nel 1975, con l’avvento del regime di Khomeini nel
1979 fu costretta a dimettersi per le leggi che limitarono
autonomia e diritti civili delle donne iraniane. Ebadi non lasciò
il Paese, come molti connazionali, ma è rimasta in Iran,
costretta fino al 1992 all’isolamento casalingo destinato alle
donne. Da allora è impegnata come avvocato, difendendo le
famiglie di scrittori e intellettuali uccisi tra il 1998 e il
1999; poi come attivista per i diritti umani e pacifista: è tra i
fondatori della ong Society for protecting the child’s right per
la protezione dei diritti dei bambini in Iran. Arrestata e
imprigionata continua a essere sostenitrice dei diritti femminili
e dei bambini.
d.s. |

I ragazzi del liceo "Govone"
hanno accolto il messaggio di Shirin
di CHIARA CAVALLERIS
Shirin
Ebadi giovedì ha incontrato gli studenti del
liceo classico Govone. Gazzetta è
stata nella scuola e ha seguito Shirin nei suoi
racconti e nel colloquio con i ragazzi. La
pacifista iraniana è stata diretta e ha saputo
rivelare con un linguaggio chiaro, attraverso
semplici concetti, una realtà opposta a quella
dei suoi interlocutori. I brevi racconti
sconvolgenti con cui ha descritto l’Iran di oggi
hanno in pochi minuti cambiato le espressioni di
molti. Shirin si è rivolta a Francesca, seduta di
fronte a lei, e le ha parlato della sua vita se
fosse nata in Iran: «Dovresti coprirti i capelli
con il velo e indossare un abito largo, per
dimostrare il tuo disaccordo potresti al massimo
tirare un po’ indietro lo chador, e già
per questo saresti considerata una
"ribelle". Avresti il diritto di
studiare, di diventare medico o avvocato, ma la
tua testimonianza a un processo varrebbe la metà
di quella di un uomo. E a una festa iraniana a
casa di amici indosseresti abiti normali e
conosceresti persone che altrimenti non avresti
mai potuto "vedere"». Shirin, che in
Iran non può svolgere il suo lavoro di giudice in
quanto donna, ha raccontato il ruolo della moglie
attraverso una vicenda: «Sono stata avvocato
difensore di molte signore maltrattate dai mariti,
che possono chiedere il divorzio solo dimostrando
l’ impossibilità di vivere con il coniuge. Una
volta ho difeso una donna menata dal marito per
aver ballato al matrimonio della sorella. Mi sono
presentata in tribunale con i testimoni e l’uomo
ha ammesso di aver picchiato la moglie. Allora il
giudice, un mullah di 60 anni, ha chiesto
all’imputato: "Pensi di aver fatto una cosa
giusta?". L’uomo ha ammesso di aver
sbagliato e il caso è stato chiuso. Alle mie
proteste il giudice ha risposto: "Perché non
permette a queste persone di vivere la loro
vita?"».

Studenti e
insegnanti del liceo albese con Shirin Ebadi.
Gli studenti hanno avuto la possibilità di
dialogare direttamente con Shirin. Ecco alcuni
stralci del colloquio. Edoardo: come viene
percepita l’Europa in Iran e come l’immagine
dell’Occidente viene presentata dal regime
iraniano? «Lo Stato mostra la comunità
occidentale come corrotta, decadente e immorale,
ma i giovani iraniani non credono in queste cose.
I nostri ragazzi leggono molto, scaricano
illegalmente film da Internet e conoscono la
vostra realtà».
Giovanni: un cristiano può professare
liberamente la sua religione? «Il cristianesimo
è accettato in Iran. Un cristiano può
frequentare chiese e praticare il suo credo,
purché non evangelizzi nessuno. Ma non ha la
possibilità di diventare giudice o ufficiale
militare e non può sposare una ragazza musulmana,
mentre un’islamica può sposare un cristiano,
perché una donna vale la metà».
Giulia: le donne cristiane hanno l’obbligo di
portare il velo? «Tutte le donne in Iran hanno l’imposizione
di indossare lo chador, anche le turiste.
Una delle mie conquiste è stata quella di
convincere il Governo a non imporre le proprie
leggi all’estero. Ora quando un’iraniana sale
sull’aereo di un altro Paese si toglie il velo
ancor prima di sedersi, poi si sistema i capelli.
Sono andata a ritirare il premio Nobel senza chador
e nessuno ha potuto dirmi niente, mentre il
popolo iraniano mi vedeva in televisione». Shirin
ha raccontato con semplicità l’infelicità di
un popolo povero in uno Stato ricco, il secondo al
mondo per giacimenti di gas naturale, rame e
uranio, un Paese in cui il petrolio abbonda e si
vive come nella Germania nazista, definito dal suo
ultimo romanzo come La gabbia d’oro.
Chiara Cavalleris
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