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Giovane staffetta partigiana albese fu
liberata da Paolo Farinetti, La beffa delle carceri. Per Franca di MARIA GRAZIA OLIVERO |
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«Avevo quasi vent’anni quando l’8 settembre del 1943 ci trovò increduli e disorientati. Solo pochi giorni di riflessione, poi il comportamento dei tedeschi prima e dei fascisti poi influenzò la scelta di molti, che s’impegnarono per la libertà». I ricordi sono di Franca Fazio, un’albese incarcerata, torturata e poi liberata da Paolo Farinetti, il comandante della XXI brigata Matteotti. La voce è incrinata dall’emozione. Ma Franca Fazio ha dipanato da tempo – per scritto, per non dimenticare – il filo che la portò a scegliere di sfidare il pericolo ed essere una staffetta «dei miei amici partigiani». Il pestaggio e l’uccisione di un amico, Giovanni Rolando, segnarono in profondità la giovane, tanto da spingerla in questa direzione. Il 13 febbraio ’45, nella chiesa della Madonna degli angeli di frazione Boffa, Franca Fazio fu ammanettata mentre diceva le preghiere, trascinata fuori e buttata su un calesse.
C’erano una cinquantina di uomini a cavallo per scortarla. «Due fascisti salirono con me. Ci incamminammo verso Alba. Il corteo procedeva lento, per dar tempo alla gente di assistere allo spettacolo. Per tutto il tempo i due figuri non lesinarono i lazzi, le parolacce e mi fecero un riepilogo delle torture che mi attendevano. Recitai le preghiere, cercando di estraniarmi. In piazza del Municipio si rappresentò l’ultimo atto. Fui fatta scendere a spintoni. Restai per qualche tempo in piedi. La mia presenza doveva essere un monito. Poi raggiunsi a piedi le carceri». Non fu che l’inizio. L’arrivo nell’edificio, i lamenti dei carcerati, la notte insonne... All’alba Franca fu scortata al Convitto. «Era il luogo scelto dai fascisti per gli interrogatori e le torture», racconta la memoria. «Amleto Rossi e Gagliardo Gagliardi (entrambi ufficiali della Rsi, fucilati ad Alba il 29 aprile del ’45, ndr) erano seduti ad una scrivania, una decina di uomini li attorniavano. Una sedia mi attendeva. Fui accolta con derisione e parolacce. L’interrogatorio era l’espediente per i maltrattamenti. Si interessarono dei miei lunghi capelli, delle orecchie. Seguirono ceffoni e ben assestati calci, che mi bersagliarono tutto il corpo. Per ultima apparve la frusta, usata con perverso sadismo. In altre occasioni avrei pianto per tanto dolore, ma in quella circostanza non una lacrima scese dai miei occhi. Tornata in cella, però, sfogai tutte le mie lacrime. Il sangue mi incollava i vestiti ed ero ammanettata».
Il rituale si ripeté per più giorni, con la variante dell’esposizione della ragazza in via Maestra, in calesse, subito dopo uno dei pestaggi. Fu usata addirittura una rudimentale sedia elettrica. «Mi auguravo la morte», prosegue la donna. «Al diciassettesimo giorno gli aguzzini erano in quattro, senza dignità alcuna. Mi sembravano bestie fameliche. Si misero a tirare il mio corpo come un manichino». La testimonianza è drammatica... Venne il giorno in cui Franca capì di dover morire. «Devo confessarti», le disse un sacerdote. «Il 3 marzo del 1944 seppi che l’esecuzione era fissata per il giorno successivo». Poi l’emozione. «Alle cinque ero in attesa della sesta ora, quando sentii battere al portone del carcere. Seguì un gran trambusto. Fui presa dalla paura. Sentivo gridare e correre per le scale e i corridoi. La porta fu aperta violentemente e mi trovai di fronte Paolo Farinetti e Maggiore Boasso. Mi trascinarono fuori di peso. Prendemmo la strada per Barbaresco. Si sentiva l’eco degli spari. La fuga era già stata divulgata...». Era la libertà. L’azione, nota come la "beffa delle carceri", fu ideata nel Vescovado. Farinetti e i suoi uomini studiarono le mosse dei carcerieri, poi, con la scusa di un pacco che non passava dalle sbarre, si fecero aprire le porte, irruppero e agirono con tale rapidità da non dare il tempo ai carcerieri di reagire, liberando i condannati a morte, Franca Fazio e sedici partigiani. La liberazione era vicina. Maria Grazia Olivero
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