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IL MEDICO E IL MALATO un rapporto da riscoprire Un lettore, medico psichiatra, riflette con noi sui modi in cui si affronta oggi la malattia e sulla crescente "disumanizzazione" delle cure prestate.
Quanto sopra è solo una parte della lettera inviata dal dottor Luigi Trabucchi, che ringrazio, anche a nome dei lettori, per limpegno di riflessione che si è assunto su un tema così importante, e per avercene fatti partecipi. La mia non sarà dunque una "risposta" vera e propria, ma piuttosto una "lettura ragionata" delle considerazioni che il dottore fa, a partire dalla "premessa" che ho collocato in testa alla pagina, a mo di lettera della settimana. «Conseguenza di questo atteggiamento», e cioè dellinsufficiente attenzione al malato, prosegue il nostro dottore, «può essere laccanimento terapeutico, che diventa negativo soprattutto nella fase terminale dellesistenza, impedendo di "vivere" pienamente quei momenti solenni, nella relazione familiare e spirituale. Tuttavia, senza nulla togliere alla responsabilità di ognuno, devo spezzare una lancia in favore dei colleghi medici e della medicina ospedaliera in particolare. Molto spesso laccanimento non è una loro scelta, ma limposizione della cultura dominante. Oggi non è più possibile star male, essere ammalati e tanto meno morire. Siamo abituati a vivere lospedale, e più in generale la medicina, come tutte le realtà che ci circondano, allinsegna dellefficienza: oggi tutto è ritenuto possibile; tutti esigono un servizio ineccepibile e risultati certi perché la "tecnica" lo consentirebbe; non si ammettono errori e fallimenti». Con una mentalità del genere, purtroppo assai diffusa (che diventa ancor più tiranna quando il paziente "paga di suo" e non si affida al servizio sanitario nazionale), il medico non può dire spiega ancora il dottor Trabucchi che «non cè più nulla da fare; che i costi supererebbero di gran lunga i benefici, sia per il paziente sia per la comunità nazionale; che laccanimento pregiudica la qualità della vita e toglie dignità alla stessa morte». Nulla di tutto questo. Il medico «deve operare sempre al massimo delle possibilità tecniche, privilegiando la scienza alla coscienza. Si lavora con lo spauracchio di una denuncia per omissione, per non aver tentato abbastanza per salvare quella vita; si teme più il Procuratore della Repubblica che la propria coscienza e il buon senso. Anche chi, come me che faccio lo psichiatra, non ha dimestichezza con malattie terminali, può sperimentare ogni giorno la richiesta del paziente e dei parenti di "star bene come tutti". Anchio mi sento rivolgere domande del tipo: "Guarirà? Potrà riprendere a lavorare? Tornerà normale?". Domande che assomigliano molto a quelle che possiamo rivolgere al meccanico quando gli portiamo lautomobile incidentata: "Si può aggiustare? Funzionerà di nuovo? Tornerà come prima?". «A parte ogni considerazione sul concetto di "normalità", non possiamo considerare luomo una macchina e la malattia un guasto, sempre e comunque "riparabile". In una cultura efficientista e produttivistica, appare invece impossibile che qualcosa "non si aggiusti" e si tende a incolpare il medico che "non sa aggiustare". È impensabile che il problema non si possa risolvere: non si può morire, e men che meno in ospedale». E ancora: «Talvolta, specie in psichiatria, si preferisce delegare al medico il compito di trovare una soluzione, piuttosto che guardarsi dentro e capire che quel che non funziona non deriva da una malattia del corpo, ma da un disagio esistenziale, da difficoltà nelle relazioni familiari e sociali, da un male morale. Cè un atteggiamento del tipo: "Io ti porto loggetto rotto-malato, tu aggiustalo-guariscilo e non preoccuparti del modo in cui io lo utilizzo". Ovviamente, poiché il problema di fondo non si risolve, la malattia-guasto non si guarisce-ripara. La colpa però è del medico "incapace", quindi si cambia officina e, se ben istruiti, si può arrivare alla denuncia». Nella conclusione, il dottor Trabucchi si rifà, oltre che alla sua esperienza professionale, alla testimonianza di suo padre, medico anchegli, che aveva fatto del rapporto con il malato la ragione della propria vita. Racconta il figlio: «Nei suoi ultimi anni (ha lavorato fino alla fine, nonostante i gravi attacchi di asma che lo affliggevano) ripeteva spesso che lui aveva sempre considerato "solenne" il momento del trapasso e, come tale, permeato dalla preghiera; ma ricordava anche come, nei fatti, prevalesse limpulso, umano e concreto, alla sopravvivenza; linvocazione "aria, aria; ossigeno, ossigeno" era assai più frequente rispetto a preoccupazioni di ordine spirituale». La buona morte, dopo tutto, resta una grazia di Dio, la più grande che ci possa essere donata e va chiesta ogni giorno, "apparecchiandovisi" però per dirla con santAlfonso de Liguori con una "buona vita". d.l.
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