I "COLORI" DELLA MORTE
che non sono tutti tetri Perché non se ne
parla quasi mai o se ne parla a sproposito? Due lettori
ci invitano a riflettere serenamente sulla fine della
nostra avventura terrena.
Quando avevo solo
diciottanni sognavo di incontrare il principe
azzurro con cui "metter su casa".
Fantasticavo sulla nostra camera da letto e sulla
cucina, cercavo sulle riviste le soluzioni più
originali e sorprendenti per larredamento,
Ho appena letto su un
giornale che Vittorio Gassman teme la morte, anzi che
la odia perché è silenzio, mentre a lui piace
parlare. A parte il fatto che il silenzio è spesso
più eloquente delle parole e che bisognerebbe
parlare un po meno e ascoltare di più, da un
uomo celebre, navigato e colto come Gassman ci si
aspetterebbero ben altre riflessioni. Il fatto è che
chi non conosce non sa e chi sa non intende. Perché
mi permetto di dissertare su argomento tanto serio e
impegnativo come la morte? Perché della morte ho
avuto una cognizione precoce e precisa: a dieci anni,
improvvisamente e tragicamente, ho visto morire mio
padre. Il triste evento non mi ha però traumatizzata
né ha avuto conseguenze drammatiche sulla mia
psiche.
Ha lasciato
semplicemente in me un profondo stupore e un
desiderio mai spento di indagare e di sapere tutto
ciò che si dice e si scrive sulla morte. Ho letto
molti libri e credo di aver letto quelli giusti, come
se qualcuno mi avesse guidato a sceglierli e a
fermare lattenzione solo su ciò che meritava
dessere rilevato e ritenuto. E ho maturato la
convinzione che la morte sia rosa. Non nera o viola,
come ci hanno abituati a considerarla, ma rosa: rosa,
o azzurra, oppure di un bel colore verde. Anzi, la
morte ha tutti i colori dellarcobaleno, più
quello che si preferisce. Perché? Perché, a
dispetto di tutte le comprensibili umane paure, la
morte certamente ci riserverà qualche bella sorpresa
e le sorprese, quando sono belle, "devono"
essere colorate...
Maria
Sono abbastanza
vecchio per pensare spesso alla morte, che
personalmente non temo se non per i dolori che in
genere porta con sé. E non capisco
latteggiamento del tutto negativo con cui viene
affrontata, anche dai cristiani, proprio quelli che
dovrebbero invece considerarla come langelo che
li introduce nelleternità e pone fine al loro
esilio in questa valle di lacrime.
Questa avversione si
può avvertire in quasi tutte le manifestazioni
legate alla morte, persino nelle preghiere per i
defunti, per i quali si chiede pace e riposo,
anziché la gioia e la felicità del paradiso, che
tutti dobbiamo sperare di guadagnarci. Altrimenti,
ragionando per paradossi, dovremmo pensare che i più
fortunati sono proprio i bambini che muoiono appena
nati. Sono forse loro quei lavoranti chiamati dal
padrone della vigna allultima ora, ai quali
viene dato il medesimo compenso di chi ha lavorato
per tutto il giorno, sopportando il caldo e la
fatica?
Aldo
Ben venga linvito a non conformarci
agli usi e costumi dellinformazione corrente per la
quale la morte è tabù. Non che non se ne parli, anzi se
ne fa un consumo persino esagerato. Ma sono soltanto
morti clamorose, segnate dalla violenza assassina, dal
crimine, dalla notorietà delle persone. È assente
invece la morte che ognuno di noi si porta dentro, così
come il frutto nasconde il nocciolo (limmagine è
del poeta austriaco Rainer Maria Rilke), quella morte che
tutti siamo destinati ad affrontare quando scoccherà la
nostra ora.
Unassenza ancor più
significativa se consideriamo le tante cose che oggi
sappiamo sulluomo rispetto al patrimonio di
conoscenze delle generazioni che ci hanno preceduti. La
biologia ci spiega come si è formata e diffusa la vita
sulla Terra, la genetica ce ne svela lingegneria
profonda, la medicina apprende ogni giorno un modo nuovo
per difenderla da tutto ciò che la minaccia. Quel che
sembra scomparso dal nostro sapere sulluomo è che
è destinato a morire.
I nostri lettori Maria e Aldo
dichiarano di appartenere invece al piccolo gruppo di
coloro che alla morte ci pensano: spesso, precisa Aldo;
senza angoscia, anzi con iridescente curiosità, aggiunge
Maria. Se è vero, come afferma Montaigne, che
«filosofare è imparare a vivere», questi nostri amici
che si rendono presente la morte per prepararsi a
fronteggiarla meglio, sono veri filosofi. Anche se non
occupano cattedre prestigiose, anche se non scrivono
libri, essi posseggono quella Sapienza con la maiuscola,
che è uno dei sette doni dello Spirito Santo.
Ma perché e come dovremmo
occuparci di un argomento così inusuale? Chi pensa da
cristiano la risposta ce lha: la creatura umana non
finisce col concludersi della vicenda terrena ma ha un
destino più importante in una dimensione eterna. La
morte, per lui, è la cerniera tra i due pannelli di un
dittico che insieme formano un unico disegno.
È però interessante ascoltare anche le
risposte di coloro che non credono in una vita
ultraterrena o ne sono così dubbiosi da rasentare
lincredulità. Ancora Montaigne, e in un orizzonte
completamente secolare, offre unottima ragione per
essere "filosofi" e riflettere sulla morte:
«La meditazione della morte è meditazione della
libertà. Chi ha imparato a morire ha disimparato a
servire».
In altre parole: quando prendiamo
coscienza che siamo esseri mortali, possiamo esercitare
la nostra libertà senza timori. Se in ogni caso siamo
destinati a perdere tutto, possiamo fare le nostre scelte
privilegiando i valori che contano di più: lamore
altruista, la dignità, lindipendenza. È la paura
della morte insinua Montaigne che fa di noi
degli schiavi.
Una descrizione molto efficace del
processo attraverso il quale la prospettiva della morte
può portare a riscoprire la libertà e la creatività,
è offerta da un vecchio film del regista giapponese
Akira Kurosawa: Vivere.
La trama è semplice: il
protagonista, un umile capufficio del catasto, va a farsi
visitare per persistenti dolori allo stomaco e viene a
sapere, in modo indiretto, di essere afflitto da un male
a prognosi infausta. In sala dattesa
dellambulatorio ha infatti un colloquio con un
veterano degli studi medici, che dapprima gli descrive
con precisione i sintomi del cancro allo stomaco, poi
passa a predirgli il comportamento del medico che lo
visiterà: se, guardando la radiografia, questi
minimizza, nega risolutamente che si tratti di tumore,
scherza e gli dice che può mangiare tutto quello che
vuole, si può essere certi: la diagnosi di cancro è
confermata (è impressionante la somiglianza con certe
situazioni di comunicazione indiretta delle diagnosi che
continuano a verificarsi anche da noi, malgrado tutti i
discorsi sui diritti dei cittadini e il "consenso
informato").
Ma nel film di Kurosawa la
prospettiva di avere solo pochi mesi di vita permette al
piccolo impiegato di raddrizzare la schiena, sia in senso
letterale sia in senso figurato. Si ribella alla
sciatteria e allindifferenza burocratica che regna
nel suo ambiente e si impegna per impedire che un parco
giochi per bambini venga sacrificato alla speculazione
edilizia. Avendo davanti agli occhi la morte, ha
"disimparato a servire", commenterebbe
Montaigne.
A questo punto, possiamo avventurarci, con la
nostra lettrice Maria, a immaginare il colore più
appropriato per la morte, abbandonando le tonalità
tetre; con Aldo possiamo cercare metafore più positive
per lo stato dopo la morte che non siano solo il
"riposo" dalle fatiche e dai dolori della vita.
Ma la fede ci dice assai di più:
Paolo e Giovanni lasciano intuire, nelle loro Lettere
e nello splendore dellApocalisse, meraviglie
che «occhio umano mai vide e orecchio umano mai
sentì». E di queste parole soprattutto si nutre la
meditazione sulla morte del cristiano che crede nella
risurrezione di Cristo e nella vita eterna.
Tuttavia anche chi non ha il dono
della fede può trovare una solida base, comune a tutti,
sul terreno della libertà interiore: credenti e non
credenti, riflettendo sulla morte possono sentirsi
sospinti a vivere con fierezza la loro vocazione di
uomini, senza compromessi, con la dignità che gli
spetta. Non è poca cosa.
d.l.
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