Il dibattito sull’aborto
che si è riacceso fortemente nel nostro Paese, dopo la moratoria sulla pena
di morte approvata all’Onu, potrebbe raggiungere risultati fecondi se si
accetta il coraggio di uno sguardo nuovo sul tema proposto, superando alcuni
schemi che in passato lo hanno isterilito.
Non si è mai veramente cessato di discuterne, in realtà,
perché da sempre l’aborto scuote le coscienze; la novità, tuttavia, è
che adesso la riflessione collettiva non può finire nell’imbuto degli
slogan intorno a una certa legge (si tocca, non si tocca, diritto, delitto,
tragedia, necessità...), ma deve cimentarsi con la realtà concreta
riportata al centro della scena che, per chi l’avesse dimenticato, è una
scena di morte.
Si tocca, non si tocca, non è questo il punto. Le leggi
sono fatte di parole, la vita è fatta di azioni.
Le parole delle leggi sono importanti, si capisce, perché
pretendono di orientare le azioni, facendole legali o illegali. Ma le azioni
della vita sono ancora più importanti, perché sul piano ontologico, nel
bene e nel male, restano quelle che sono, comunque siano chiamate.
L’aborto è un’azione di morte, guardiamolo in faccia.
Non cambia natura secondo che le parole di legge lo traslochino dalla
frontiera illegale al territorio legale (in Cina ne fu fatto persino un
obbligo giuridico); resta dominio di morte. In Italia ne abbiamo censiti,
nei trent’anni di cui parliamo, più di quattro milioni. Quattro milioni
di bimbi messi a morte prima di nascere, quattro milioni di madri private
della maternità.
Proviamo a sostenere lo sguardo di questi otto milioni di
volti, e a chiederci poi se avvertiamo qualche emozione, qualche dolore,
qualche ingiustizia, qualche voglia di mutamento, qualche speranza di un
futuro diverso, oppure se questa che tutti definiscono tragedia vada bene
così; se ci lasci indifferenti e inerti la previsione che "così"
anche l’anno nuovo da poco iniziato conterà infine i suoi 130.000 morti
abortiti.
È questo preannuncio, o rischio, o sfida, il terreno su
cui si può formare, al di là di tutti gli antagonismi del
dibattito storico passato, un’alleanza fra tutti. Perché comune almeno,
al nocciolo, è la convinzione che ogni vicenda di aborto è dolore e resa,
dramma e perdita, sventura e male sociale.
E dunque l’impegno primario comune è per tutti aiutare
la vita, liberarla da questa minaccia, rimontare o contenere almeno i
bollettini della sconfitta.
Liberare è soccorrere: è il contrario dell’abbandono
di una madre alla solitudine del sì e del no, al bivio tra vita o morte,
quando la maternità "difficile" segnala, invece, esattamente che
è una determinata "difficoltà" la strettoia che coarta la
libertà. È quella strettoia che va sciolta.
Va sciolta con l’accoglienza e l’ascolto della
persona, con la ricerca delle soluzioni per rimuovere le cause del proposito
abortivo, con gli aiuti concreti, persino con "speciali
interventi". Non sono parole mie, ma della legge, sono quella
"tutela sociale della maternità" che appare oggi come una
promessa lungamente disattesa.
Ma ciò che sconfigge i sogni non è solo l’abbandono,
è anche la neutralità (quando non l’avversione) verso le ragioni della
vita.
Diversa è la passione del soccorso, se la cronaca dice
che un movimento di volontariato per la vita ha salvato in questi anni
80.000 bambini (e dunque 80.000 madri, in identico abbraccio). Goccia nel
mare, ma segno concreto che è possibile la speranza.
La legge stessa prevede in forma organica la
collaborazione del volontariato con i consultori, e vanno aperte le giuste
strade. La novità di una riflessione comune a tutti, di fronte alla strage
di vita che tutti ferisce col suo oggettivo dolore è questa: che si può e
si deve rimontare, con uno stile di pensiero solidale con la vita, con l’adempimento
delle promesse, con l’impegno coerente dell’aiuto.