Il pulmino arriva
puntuale ogni mattina alle 7.30. Percorre i sampietrini di via San Francesco
di Sales e si ferma davanti a una palazzina proprio in fondo alla strada. In
pochi minuti il pulmino si riempie di bambini. Anche quando non fa freddo
alcuni di loro indossano sciarpe e berretti, qualcuno ha una mascherina che
protegge la bocca. Sono bambini un po’ speciali. Delicati. Hanno il
cancro.
Il pulmino riparte e si arrampica verso il Gianicolo. Ci
mette solo cinque minuti per raggiungere l’Ospedale pediatrico Bambino
Gesù. Qui i piccoli malati passano la mattina al day hospital. Fanno esami,
controlli e terapie, a volte dolorose e fastidiose, come la chemio che ti fa
cadere i capelli e ti procura la nausea. A fine mattina il pulmino raccoglie
i bambini e scende verso Trastevere. Addio corsie, camici bianchi, aghi,
flebo. Si riapre il portone di via San Francesco di Sales e si entra nel
mondo di Peter Pan.
Peter Pan è il nome scelto dall’associazione che si
occupa dei bambini oncologici, e delle loro famiglie, in cura presso il
Bambino Gesù di Roma. Il nome è azzeccato. Evoca allegria e leggerezza. «Non
abbiamo voluto scegliere una sigla o "santificare" il figlio di
qualcuno. Peter Pan, invece, riassume la nostra filosofia. Cerchiamo di
affrontare la malattia rendendola più sopportabile, vivibile e meno penosa
con la leggerezza di Peter Pan e un ragionevole ottimismo», spiega Maria
Teresa Barracano Fasanelli, presidente dell’Associazione.
L’idea dell’associazione matura agli inizi degli anni
Novanta nelle corsie dell’ospedale. Fondato nel 1869 con un atto di
beneficenza, il Bambino Gesù è stato il primo ospedale pediatrico in
Italia. Dal 1985 è Istituto di ricovero e cura a carattere scientifico.
Oggi è un punto di riferimento non solo per Roma, ma per tutto il
Centro-sud. Nelle corsie dell’ospedale, seguendo le cure dei propri figli,
alcuni genitori si resero conto dei disagi che devono affrontare le famiglie
non residenti a Roma. «Già la malattia è devastante», dice la signora
Fasanelli, «ma tutto diventa più difficile se devi lasciare la casa, gli
affetti, gli altri figli, e trasferirti per un periodo indefinito in una
città cara come Roma. Abbiamo visto mamme perdere il lavoro, padri
costretti a fare i pendolari o a dormire in auto. Bisognava fare qualcosa».
Nel novembre del 1994 nasce l’Associazione Peter Pan (www.asspeterpan.it)
ei soci si mettono alla ricerca di una sede. La
trovano in uno degli angoli più tranquilli del centro di Roma, tra il
Vaticano e Trastevere, proprio ai piedi del Gianicolo. È una palazzina a
due piani, fatiscente, abbandonata da una decina di anni, succursale di un
liceo artistico. I soldi per i restauri arrivano grazie alla generosità di
diverse aziende come l’Alitalia, di Francesco Gaetano Caltagirone (editore
del Messaggero, che lancia una sottoscrizione fra i lettori) e di
tanta gente. «Il progetto parla da solo, ci ha subito dato credibilità,
tutti lo hanno sentito come qualcosa di vero», racconta la presidente.
Uno spazio a misura di famiglie
La casa è inaugurata nel 2000. Ha 12 stanze con 2-4
letti, tutte con bagno privato, più altre due stanzette. C’è un grande
salone refettorio, una cucina con quattro unità di lavoro, due saloni
comuni, un locale per lavanderia e stireria, una terrazza panoramica e un
tranquillo giardino di 200 metri quadri. In ogni stanza c’è spazio per
tutto il nucleo familiare dei piccoli malati. I bambini possono avere
accanto fratelli, sorelle, genitori. Negli spazi comuni, come la cucina o il
giardino, si socializza, si condividono paure, attese, speranze. Quando
occorre c’è anche un parrucchiere. «È giusto che le mamme abbiano un
aspetto curato, davanti al dolore dei figli non devono lasciarsi andare, è
importante psicologicamente pure per i bambini», dice la signora Fasanelli.
Due anni di aspettativa
Domenico è un giovane padre che viene dall’Abruzzo. Si
è preso due anni di aspettativa retribuita per seguire le terapie della sua
bambina di nove anni, operata l’anno scorso. «Abbiamo passato dei momenti
molto brutti», racconta, «ma ora pare vada tutto bene. Senza l’aiuto di
Peter Pan non avrei saputo come fare. Qui tutto è al servizio dei bambini.
Sono stupende soprattutto le Wendy, che li tengono sempre allegri». Le
Wendy, dal nome della bambina protagonista della fiaba di Peter Pan, sono le
animatrici della casa. «Essere Wendy vuol dire far giocare i bambini»,
spiega Paola, 32 anni, volontaria qui da quattro. Aggiunge: «Dentro questa
casa c’è tanta energia, non riesco proprio a vedere questi bambini come
dei malati».
Qui tutti i volontari hanno nomi buffi. I "pifferai
magici" curano l’accoglienza in ospedale, le "spugne"
sterilizzano e puliscono le stanze, i "mastri Geppetto" curano la
manutenzione della casa, il "pipistrello" è il volontario nel
turno notturno. «La nostra è una straordinaria esperienza di cittadinanza
attiva, capace di raccogliere tanti volontari attorno a un unico progetto»,
spiega Gian Paolo Montini, da un anno direttore dell’associazione.
Nel luglio del 2004 ha aperto la "Seconda stella di
Peter Pan", una casa con dieci stanze vicina al Policlinico
universitario Umberto I. Dal 4 settembre 2000 al 1° aprile 2006, nelle due
case sono stati accolti 269 bambini. Oltre la metà di loro ha un’età
compresa fra 0 e 4 anni. Provengono soprattutto dal Sud e dalla Sardegna, ma
ci sono anche bambini e famiglie dalla Libia, dall’Albania, dal Marocco,
dall’Irak. La solidarietà non conosce confini.