Al suo primo romanzo,
Yasmin Crowther, nata a Londra nel 1970 da una famiglia anglo-iraniana, va
alla radice di un nodo esistenziale, quello che lega in maniera quasi
inestricabile le origini anglosassoni e quelle iraniane, rispettivamente
paterne e materne, di una delle protagoniste, Sara.
A sua volta la madre di Sara, Maryam, è divisa nell’intimo
tra il ricordo del passato in Iran, da cui fu violentemente espulsa per
volontà paterna, e il presente accanto a un marito inglese che l’ama
disperatamente, sapendo di dover convivere con il fantasma di un altro, il
primo amore di Maryam.
Sarà un evento traumatico, che alzerà una barriera di
risentimento tra madre e figlia, a spingere prima Maryam e successivamente
Sara di nuovo in Iran, sulle tracce del passato, personale e storico (Maryam
lasciò il Paese prima della rivoluzione khomeinista).
La Crowther alterna il racconto di Sara, che parla in
prima persona, direttamente al lettore, alla storia di Maryam, descritta
invece in terza persona, dall’esterno: i pensieri di Sara, una donna che
si trova a essere nello stesso tempo madre che ha perso il bambino che
aspettava e figlia che sta perdendo la madre, si incrociano così con la
storia di Maryam, lungo e accorato racconto di umiliazione e di fuga.
Un percorso da affrontare per imparare che «la collera è
senza ritorno. Non si può ritirare uno schiaffo dato. E ci sono parole che
una volta dette non si cancellano più. Si insinuano dentro, finché un
giorno succede qualcosa di terribile».