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Carmina non dant panem, dicevano i latini. Nec salamen, aggiungono beffardi gli studenti. Le poesie non danno pane, salame men che meno. Valeva al tempo dei latini e vale ancora per i più, ma, restando in tema di detti popolari, ogni regola che si rispetti ha un’eccezione. La nostra si chiama Umberto Broccoli, tra i pochi capaci di addomesticare le parole fino a ricavarci non uno ma molti mestieri (e qualche conseguente salamino).
«Sì, hanno uno spazio primario nella mia giornata, anche se noi ormai viviamo di immagini. Però quando si dice: "Sia santificato il Tuo nome", si dice il "tuo" nome, non la tua faccia. La parola è centrale».
«No, è creare immagine con le parole, far sentire un profumo per radio».
«No, la radio è un mezzo modernissimo: si è integrata subito con Internet, cosa che la tv non è riuscita a fare. Verba volant, scripta manent per gli antichi voleva dire: le parole volano e arrivano ovunque. Gli scritti rimangono e si impolverano. Quanto a me, ho cominciato a scrivere con il computer, quando ancora pochi lo facevano, ma poi mi sono fermato lì. Per me il podcasting potrebbe essere un budino».
«Era un vecchio Zingarelli, un magazzino di parole nel quale sfogavo la curiosità di incontrare parole astruse, magari anche "proibite". Erano i primi anni Sessanta, quando il vocabolario già si stava restringendo. Lo dico non da tradizionalista, concordo con Petronio: la lingua italiana è come un fiume, c’è la barca, il tronco, l’escremento. L’evoluzione è naturale».
«Sì, per pura curiosità».
«Nella biblioteca di mio padre, Bruno Broccoli, l’autore di Canzonissima e di Studio Uno, un’altra vita di parole scritte, dette, umoristiche. Un destino, tanto che considero le mie lauree, l’archeologia, l’insegnamento universitario (ma quest’anno dopo 30 anni mi hanno richiamato) una bellissima parentesi».
«Non possediamo la verità nelle scienze esatte, figurarsi nelle scienze umane: la lingua va accettata anche nelle contraddizioni. E poi io sono quello che faceva parlare in endecasillabi Cloris, la zingara della Tv».
«Non mi piace il turpiloquio, anche se non sono un’educanda. Nel 1972 sono stato nazionale di pallavolo, frequentavo lo spogliatoio. Ho ascoltato cose che avvicinavano al divino in maniera abbastanza problematica. Detesto le parolacce, come intercalare. Non sopporto le bestemmie. E mi sono antipatici quasi altrettanto tutti gli anglismi in blocco. Sul brainstorming potrei commettere un omicidio».
«È una moda, inutile. L’inglese usato quando esiste l’equivalente italiano rivela assenza di pensiero».
«Mi impressiona. Prima di pormi il problema della seconda lingua nella scuola, penserei alla prima».
«L’sms è il nuovo geroglifico. Se "sai ke ti amo" convivesse con la conoscenza della lingua italiana non ci sarebbe alcun problema. In epigrafia sciogliere le abbreviazioni era anche un gioco divertente come le parole crociate».
«Dalla centralità alla parola. Volevo vedere fatti e persone del quotidiano di ieri per spiegare il quotidiano di oggi: con parole mie citando altri: da Ovidio a Thomas Mann».
«Due libri: Archeologia e Medioevo, scritto nel 1986, con un’ironia tagliente contro il sistema: il mio suicidio accademico. E poi Voce del verso amare, pubblicato nel 2003 con Patrizia Cavalieri: liriche del mondo classico abbinate ai testi dei cantautori».
«Una volta imparate sono dentro di noi. Neruda, in Confesso che ho vissuto, ringraziando i conquistatori per avergli dato la lingua spagnola, trova per questo dieci righe stupende».
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