Le galassie spaziali
durano milioni di anni. La galassia bancaria del Nord di Enrico Cuccia si
è rivelata molto più effimera. Chi l’avrebbe detto? C’è voluto poco
più di un lustro perché la costellazione di intrecci finanziari di grandi
aziende e istituti bancari del fondatore di Mediobanca, scomparso a giugno
del 2000, finisse di irradiare il cosmo del capitalismo italiano, per
effetto dell’irresistibile espansione della finanza bianca, grazie alla
buona stella del banchiere Giovanni Bazoli.
Il matrimonio annunciato tra Intesa e San Paolo, che darà
vita al più grande polo bancario del nostro Paese, un colosso con 65
miliardi di euro di capitalizzazione, 16 milioni di clienti e 6 mila
sportelli, è il capitolo finale di una storia che parte da lontano. Da
quando Bazoli, allora cinquantenne avvocato bresciano e docente di Diritto
all’Università Cattolica, venne convinto dal ministro del Tesoro Beniamino
Andreatta e dal governatore Carlo Azeglio Ciampi a prendere in
mano le redini del Nuovo Banco Ambrosiano, la fenice nata dal crack dell’istituto
di Roberto Calvi, la banca della borghesia milanese devastata da
mafia e P2.
Da allora il processo di aggregazione non ha conosciuto
soste: prima la Banca Cattolica del Veneto, poi la Cariplo, infine la Comit,
una delle tre banche di interesse nazionale, con una storia secolare che
andava da Giuseppe Toeplitz a Raffaele Mattioli, fiore all’occhiello
assai caro a Enrico Cuccia. Tanto per fare un esempio, il processo di
consolidamento finanziario della Fiat è stato guidato da un pool di banche
che faceva capo a Intesa, ormai protagonista indiscussa e baricentro del
capitalismo italiano.
Fino a dieci anni fa nessuna operazione di questo tipo
poteva svolgersi fuori dall’orbita della "galassia del Nord" di
Mediobanca. Che non è più la numero uno, anche se resta una delle banche d’affari
migliori del mondo e ha in pancia partecipazioni importanti come il gigante
di Trieste, Generali (legata però a Intesa come azionista e per tutta una
serie di accordi che la fanno rientrare nella sua orbita), ed Rcs-Corriere
della Sera (ma anche in questo caso Bazoli ha una parte importante nella sua
governance). Oggi la musica è cambiata.
Oltretutto un segnale che il capitalismo italiano sta
girando diversamente, se sussurri e grida venissero suffragati dai fatti,
sarebbe la notizia che la famiglia Agnelli, in pieno accordo con l’amministratore
delegato della Fiat Sergio Marchionne, sta preparando l’uscita da
Mediobanca e, tramite Ifil, la finanziaria del Lingotto, si accinge a
entrare nel patto di sindacato della nuova superbanca Intesa-San Paolo.
Giovanni Bazoli segna un’altra schiacciante vittoria
della finanza bianca, con un matrimonio alla pari, quello tra Intesa e San
Paolo, che profuma molto di acquisizione, come dimostrano i mugugni all’ombra
della Mole e la governance della nuova creatura, che vede l’avvocato
bresciano a capo del Consiglio di sorveglianza e il suo braccio destro Corrado
Passera amministratore delegato unico. I "torinesi" del San
Paolo devono accontentarsi del consiglio di gestione, guidato dal numero uno
del San Paolo, Enrico Salza, e di altre poltrone di seconda fila.
Il silenzio-assenso di Draghi
La nascita del primo polo bancario italiano, terzo in
Europa, è stata benedetta praticamente da tutto il mondo politico, da Romano
Prodi a Silvio Berlusconi (che ha definito l’operazione
"un bene"), oltre che da buona parte di quello finanziario, a
cominciare dal governatore Mario Draghi, che ha suggellato il
matrimonio col suo silenzio-assenso (anche se per effetto delle nuove norme
entrate in vigore recentemente non era necessaria nemmeno la comunicazione
preventiva a Bankitalia).
Stavolta l’"italianità" dell’operazione è
stata considerata un bene, e l’analogia con quanto è avvenuto la scorsa
estate, quando il governatore Antonio Fazio fu criticato proprio
perché difendeva la Banca popolare di Lodi in nome degli stessi valori, fa
alquanto pensare all’ironia della storia.
La globalizzazione dei mercati ha reso assolutamente
necessari processi di aggregazione nel mondo del credito, per evitare che i
nostri campioni nazionali diventino preda delle Opa degli stranieri (come è
avvenuto per la Bnl, conquistata dai francesi di Bnp Paribas). Grazie alla
più grande fusione bancaria mai realizzata in Italia il colosso Intesa-San
Paolo sarà in grado di rastrellare il 20 per cento della clientela italiana
e soprattutto di trattare da pari a pari in Europa, agendo anche da
importante propulsore di acquisizioni aziendali, megafusioni societarie e
operazioni del genere Oltralpe.
Non sono tutte rose e fiori
Ci saranno senza dubbio vantaggi per gli azionisti dei due
istituti di credito. Secondo le stime preliminari fornite da Ca’ de Sass e
piazza San Carlo, l’utile netto del 2009 sarà di sette miliardi di euro,
con una crescita media annua del 13 per cento e un impegno alla
distribuzione dei dividendi pari almeno al 60 per cento dei profitti.
Insomma, la notizia della megafusione è stata definita "un fiore d’agosto",
dallo stesso Bazoli, nell’annunciarla insieme con Salza e con il
presidente della Fondazione Cariplo Giuseppe Guzzetti, partecipando
al Meeting di Rimini.
Ma in realtà non vi è la certezza che sarà tutto rose e
fiori. Perché le incognite nell’operazione non mancano. Quale sarà l’effetto
delle nuove sinergie aziendali per i clienti e per le imprese, al di là dei
vantaggi delle spese di bancomat e della "portabilità" del mutuo
(la possibilità di trasferirli da una banca all’altra)? Nessuno ancora lo
ha calcolato. Inoltre, è probabile che per effetto della fusione ci siano
degli esuberi (si parla di 15 mila unità) e i sindacati sono sul chi va
là. Insomma, quel matrimonio s’ha da fare, è la globalizzazione dei
mercati finanziari che ce lo impone, ma in questo genere di nozze potrebbero
essere i piccoli imprenditori, i risparmiatori e soprattutto i dipendenti a
pagare la dote, salata.