Per Israele il cessate
il fuoco della seconda guerra del Libano è giunto nel momento peggiore: il
Paese non vive una situazione di vittoria, né di disfatta, ma semplicemente
di grande impasse. Crollato il mito dell’invincibilità in battaglia dello
Stato ebraico, la gente si interroga sul significato profondo della guerra
agli Hezbollah. Una guerra, a parere di molti, con troppi
"condotti", ma senza un vero "condottiero".
Troppa la fiducia in sé stessi dei comandanti militari,
troppi i discorsi alla Churchill e troppa poca la riflessione sullo scopo
dell’operazione militare in Libano. C’è chi si chiede che cosa abbia
spinto il capo di Stato Maggiore dell’esercito israeliano a convincere un
Governo relativamente principiante a intraprendere in poche ore una vera
guerra in risposta al rapimento di due soldati. Senza un programma preciso,
senza pensare a come sarebbe finita, a quale sarebbe stata la sua forza
distruttiva e a quanto sarebbe durata.
Ad Ariel Sharon non sarebbe successo. In tutto
quello che fece, nel bene e nel male, nella sua lunga carriera, sapeva fin
dal principio dove voleva arrivare. Sharon era un leader che sapeva
condurre. Ehud Olmert è entrato nei panni di Sharon senza averne le
doti e il carisma.
Nel primo discorso alla nazione si era impegnato ad
arginare gli Hezbollah e a eliminare la minaccia costituita dai razzi che
colpivano Israele. Non è chiaro oggi in virtù di cosa avesse fatto quelle
promesse. Probabilmente basandosi sulle assicurazioni del capo di Stato
Maggiore, Dan Halutz. L’interrogativo è se Olmert aveva posto ad
Halutz le domande giuste. Se, per esempio, gli aveva chiesto come l’esercito
era in grado di distruggere gli Hezbollah, o quantomeno di disarmarli. Se
aveva chiesto quali erano i pericoli che le retrovie civili avrebbero corso
e quale capacità di resistenza avevano.
Soprattutto, la domanda principale: è possibile vincere
questa guerra solo con l’aviazione, senza intraprendere in parallelo un
attacco con le forze di terra? Halutz, eccellente pilota di caccia, forse si
è dimostrato un po’ troppo sicuro di sé, al punto da convincere Olmert,
senza preparare adeguatamente la fanteria, senza equipaggiare i riservisti
come si deve e soprattutto facendoli entrare in gioco troppo tardi.
Il Governo Olmert ha peccato di eccesso di fiducia, non
controllando fino in fondo come l’operazione militare si sarebbe
sviluppata. Per il momento a pagare il prezzo del mancato successo della
guerra è stato Halutz. Per quanto riguarda Olmert, sembrerebbe, a meno di
elezioni anticipate che non si possono escludere, che non rischi di perdere
la sua poltrona da premier anche se da più parti se ne esigono le
dimissioni.
Il primo ministro aveva basato la sua campagna elettorale
sul secondo ritiro unilaterale dai territori occupati, come il ritiro dalla
Striscia di Gaza, proclamando perfino che il ritiro unilaterale era la
ragion d’essere del nuovo partito Kadima, di cui si era ritrovato a essere
capo dopo il ricovero di Sharon. Ma oggi il piano di ritiro dalla
Cisgiordania, esattamente un anno dopo quello di Gaza, è morto e sepolto.
Un Governo a fine corsa?
Lo ha annunciato lo stesso Olmert alcuni giorni fa durante
incontri informali con ministri del suo Governo. L’annullamento del
progetto impone due domande: che cosa succede nei territori? Che senso ha la
continuazione del Governo Olmert?
La politica di Israele nei confronti dell’Autorità
palestinese si riduce al boicottaggio del Governo di Hamas e a promesse,
ormai impolverate, di dialogo con Abu Mazen. Tutto è congelato in
attesa dell’accordo con il quale, in cambio del rilascio del soldato
israeliano rapito, Gilad Shalit, saranno scarcerati centinaia di
palestinesi, e il lancio di missili Kassam cesserà in cambio del ritiro
dell’esercito israeliano dalla Striscia di Gaza. A questo si limita, al
momento, l'orizzonte politico. Il conflitto coi palestinesi è relegato
nelle pagine interne dei quotidiani, l’invio della forza multinazionale
delle Nazioni Unite attira tutte le attenzioni.
Rispunta Benjamin Netaniahu
L’esame di coscienza che si sta facendo Israele impone a
Olmert delle alternative al piano di ritiro unilaterale. Una alternativa che
dia a Israele una nuova speranza. Senza un nuovo programma politico
convincente, il Governo Olmert non ha molte possibilità di sopravvivere a
lungo. Benjamin Netaniahu, il capo dell'opposizione, sta
capitalizzando con grande sapienza gli errori del Governo Olmert,
preparandosi a un suo possibile ritorno all’incarico di primo ministro, il
che allo stato attuale non dispiacerebbe a molti.
Come conferma un recente sondaggio condotto dal quotidiano
Yediot Ahronot, secondo il quale il 68 per cento degli israeliani
pensa che Olmert dovrebbe dimettersi, imitato dal capo di Stato Maggiore
Halutz (le cui dimissioni sono invocate dal 54 per cento degli
intervistati), mentre alla domanda: «Chi sarebbe oggi il leader più
indicato a ricoprire la carica di primo ministro?», il 22 per cento indica
appunto Benjamin Netaniahu, seguìto dal leader dell’estrema destra Avigdor
Lieberman (18 per cento), e solo l’11 per cento vorrebbe ancora Olmert
alla guida del Governo, preceduto anche da Shimon Peres (12 per
cento). In un ipotetico ballottaggio tra Netaniahu e Olmert, il primo
prevarrebbe con il 45 per cento delle preferenze, contro il 24 per cento
dell’attuale premier. Se si aggiunge che il 74 per cento degli israeliani
vuole anche la rimozione del leader laburista Peretz dalla carica di
ministro della Difesa, la disfatta dell’attuale Governo appare dunque
totale e senza appello.