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«La prima volta che sentii parlare di Abdullahi Yusuf Ahmed fu nel 1978. Ero appena giunto in Somalia. C’era stato un tentativo di golpe contro Siad Barre e quel giovane colonnello vi era implicato. Perciò andò in esilio. Rientrò in Somalia solo alla caduta del dittatore, nel 1991». Le parole sono di monsignor Giorgio Bertin, amministratore apostolico di Mogadiscio fin dall’uccisione, nel 1989, dell’arcivescovo, Colombo. Bertin è il pastore della piccola comunità cattolica rimasta in Somalia. «Non più di 100 fedeli», dice. «Che vivono nascosti, come i primi cristiani». Abdullahi Yusuf, invece, oggi ha 70 anni ed è il neopresidente della Somalia. Oppositore storico di Siad Barre (fece sei anni di carcere per non averlo appoggiato nel colpo di Stato del 1968), con la fuga del dittatore era rientrato in Migiurtinia, e dal 1998 era diventato presidente del Puntland, la regione nordorientale della Somalia che ha conquistato militarmente e pacificato. «Dicono che sono un signore della guerra», ha dichiarato nel suo primo discorso. «Da oggi mi conoscerete come uomo di pace».
Abdullahi, eletto dal nuovo Parlamento con 189 voti su 275, ha prestato giuramento il 14 ottobre scorso a Nairobi alla presenza di diversi capi di Stato africani e delegati occidentali. Così finisce – almeno formalmente – una delle più sanguinose guerre civili africane, durata 14 anni, che ha provocato centinaia di migliaia di vittime e la diaspora di milioni di somali nel mondo. La Somalia rappresenta un caso unico al mondo: Paese senza Stato, in questi anni è divenuto una sorta di territorio feudale, governato dai signori della guerra locali, teatro di scontri, di fame ed epidemie, luogo ideale di ogni tipo di affare illecito.
La pace è arrivata dopo due anni di complicate trattative, e 13 tentativi andati a vuoto, fortemente voluta dall’Unione europea e dall’Igad, l’Agenzia per lo sviluppo che riunisce gli Stati dell’Africa orientale, le agenzie internazionali e i Paesi donatori, fra cui l’Italia. «Dobbiamo il massimo riconoscimento e apprezzamento al ruolo svolto dall’Italia, specie attraverso l’azione di Mario Raffaelli, l’inviato speciale del ministro degli Esteri Frattini», dice Yusuf Mohamed Ismail, consigliere del presidente somalo. «Negli ultimi mesi l’Italia è stata davvero l’architetto del successo della Conferenza di pace». Scuola, sanità, strade, infrastrutture, tutto è stato spazzato via da guerra e anarchia. Il presidente deve nominare il premier, formare il Governo, e soprattutto insediarsi a Mogadiscio. Per ragioni di sicurezza le istituzioni somale resteranno ancora, per breve tempo, a Nairobi.
Ora bisogna rifare il Paese «Il primo problema è il disarmo dei miliziani», aggiunge Ismail. «Il secondo è far ripartire l’economia, integrandola con quella dei Paesi vicini. Il terzo è ricostruire un minimo di Stato sociale, non solo perché la gente è stremata dalle tante privazioni, ma pure per togliere ossigeno all’integralismo e alle infiltrazioni terroristiche». Un’analisi condivisa anche da monsignor Bertin: «La fine del conflitto», dice, «è un grande segno di speranza per la gente che ha sofferto pene indicibili. Ora, però, va sostenuta con la politica, con gli aiuti, ma anche con una missione di pace. Per disarmare le milizie occorre un numero adeguato di caschi blu. Questo i somali, da soli, non lo possono fare. Nell’agosto scorso, vedendo che la Conferenza di pace prometteva bene, ho invitato la Caritas a effettuare una missione esplorativa. C’è urgente bisogno di venire incontro alla nuova carestia, di aprire dispensari e scuole. Ma, prima di tutto, di dare nuove opportunità agli ex miliziani. La Caritas è pronta a farlo. Senza sicurezza, la Somalia non può essere ricostruita».
Bertin periodicamente si reca a Mogadiscio. Racconta che nell’ultimo viaggio i posti di blocco e le bande armate sembravano aumentati. «Forse perché si rendevano conto che le cose stavano per cambiare», spiega, «e cercavano di prendere gli ultimi soldi». La prima meta di Bertin è stata come sempre l’unica comunità religiosa presente nel Paese: quattro suore che, insieme all’Ong Sos Kinderdorf, gestiscono un ospedale, un orfanotrofio e una scuola. Le religiose – Marzia, Annalisa, Maria Bernarda e Gianna Irene – continuano una presenza che le missionarie della Consolata non hanno mai interrotto dal 1924. «In questi anni hanno condiviso, giorno per giorno, la sorte della gente», dice. «Una presenza discreta, segno importante di dialogo interreligioso».
Non ci sono più chiese, a Mogadiscio. La
grande cattedrale è stata fatta saltare in aria. «Una piccola comunità
cristiana, però, c’è ancora. E senza ostentazioni continua a vivere la
sua fede. Quando vado a Mogadiscio celebriamo la messa in una minuscola
cappellina. E la "Via crucis" la facciamo fra la cucina e il
salottino delle suore». Secondo monsignor Bertin, i prossimi mesi sono
cruciali: «Il fondamentalismo non ha mai attecchito in Somalia. Ha fatto
breccia, negli ultimi anni, proprio perché il Paese è stato lasciato a sé
stesso». Ed è arrivato tanto denaro dai Paesi arabi per finanziare scuole
coraniche, attraverso le quali si è insinuato l’integralismo. Ecco
perché occorre un forte sostegno, ora, da parte della comunità
internazionale.
Luciano
Scalettari
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