n. 8/9 AGOSTO-SETTEMBRE 2004 EDITORIALE SERVIZI
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DOSSIER
- UNA TERAPIA GARANTITA
GUARIRE CON IL BUON UMORE di LEONARDO SPINA e SONIA
FIORAVANTI
IN
CORSIA CON IL CLOWN-DOTTORE È opinione comune che i clown (dottori) siano entrati nei reparti pediatrici a partire dall’esperienza di Patch Adams e che questi sia l’iniziatore della cosiddetta "comicoterapia". Potenza dei media che, semplificando, spesso arrivano a fuorviare. Il film Patch Adams con un Robin Williams in forma strepitosa è la versione hollywoodiana dei primi trent’anni della vita di Hunter Adams, medico chirurgo del West Virginia, famoso, proprio grazie al film, per girare il mondo con vestiti variopinti, spesso con un naso rosso per recare un semplice, piccolo, enorme messaggio: curare la persona, non solo la malattia. Questa verità, calata nella medicina occidentale, è assolutamente rivoluzionaria e lo stesso Patch, in patria, è considerato un sovversivo, con tanto di Fbi spesso alle sue calcagna. Egli propugna una visione della malattia come grido di aiuto da parte della persona ammalata e questo aiuto deve venire dall’amore, nelle sue diverse sfaccettature: amicizia, solidarietà, vicinanza, umorismo. Le altre cure debbono innestarsi su questo substrato di emozioni positive, di per sé terapeutiche. Patch non è così un vero clown dottore, ma un "medico-testimonial", una grande anima che spesso fa e usa il clown come espediente mediatico, grimaldello per rendere più incisivo quel semplice, pressante, fondamentale messaggio. In compenso aborrisce la parola terapia (accoppiata con le parole comico, clown, riso, eccetera) poiché, dice, è l’amore l’unica terapia possibile. Sembra una contraddizione e perciò: come dargli torto? Ma anche, come dargli ragione? Nel Devoto-Oli della lingua italiana, alla voce terapia si legge: «branca della medicina che tratta dei mezzi e delle modalità usati per combattere le malattie, e l’insieme dei provvedimenti adottati a tale scopo, in questo senso sinonimo di cura». Se introduciamo l’elemento amore in una terapia i risultati della cura saranno senz’altro migliori: molte ricerche scientifiche hanno dimostrato come le emozioni positive incidano positivamente sul sistema immunitario, contribuendo potentemente a migliorare la salute. Si tratta dunque di un valore aggiunto alle diverse terapie. Far ridere, oltre a essere una forma del dare amore a chi ne ha bisogno, è di per sé atto terapeutico, poiché da un lato muta la chimica delle emozioni e contribuisce al miglioramento dell’immunità, e, dall’altro, opera un radicale mutamento della sfera emotiva, della socialità, dell’autostima, della forma mentis... A buon diritto, con buona pace del nostro amico Patch, possiamo perciò parlare di comicoterapia (in termine scientifico gelotologia, che ne comprende anche lo studio e le metodologie di somministrazione). Noi distinguiamo la comicoterapia attiva da quella passiva. Nel primo caso il clown dottore (in divisa o in borghese) cerca, con varie tecniche, di tirar fuori dalle persone la loro vena comico-umoristica. È una modalità terapeutica di gruppo che punta sull’attivazione del bambino interiore delle persone, ancorché ammalate anche di patologie molto gravi. La comicoterapia passiva consiste, semplicemente, nel provocare il riso e il sorriso nelle persone in difficoltà (o sane), a partire dal reale bisogno di ciascuna di esse. Per lo più, infatti, è praticata ad personam da un’équipe di due clown dottori, rigorosamente in divisa.
Un po’ di storia In genere siamo abituati a considerare l’Illuminismo come un periodo molto fertile dell’avventura umana, grazie al quale la ragione ha iniziato, incontrastata, a governare il cammino dell’umanità. All’inizio del terzo millennio possiamo tranquillamente asserire che, quell’esperienza culturale, che ha portato allo scientismo, al macchinismo, alla medicina allopatica ha esaurito la sua forza propulsiva. Possiamo anche dire che forse era un brutta estremizzazione. Infatti da un lato lo sviluppo della psicologia ha dimostrato quanto sia piccolo, in effetti, il contributo della "ragione" allo sviluppo umano: abbiamo abolito la guerra, risanato la fame nel mondo, le malattie, il clima, i rapporti umani? Abbiamo scoperto qualcosa di sostanziale su di noi, sul mistero della vita? Non tanto. D’altro canto l’antropologia e l’etnologia hanno portato alla scoperta di diverse visioni della realtà assai meno disumanizzanti; usi e costumi davvero civili, seppur non filtrati dai lumi del puro intelletto, anzi, spesso in netta opposizione. Poiché siamo in tema di medicina, possiamo asserire che, nonostante i grandissimi e utili progressi della tecnologia, la nostra resta una medicina ottocentesca che non è riuscita a farsi scienza. Ottocentesca poiché rimasta legata al concetto meccanicistico dell’uomo, in cui ha dignità di ricerca e di cura medica solo ciò che attiene al corpo materiale, arrivando a concepire i "pezzi di ricambio" siano essi organi o materiale genetico. Non ci si è accorti dei messaggi delle altre medicine, quelle delle grandi tradizioni orientali (la medicina cinese, la ayurvedica indiana) senza sconfinare in quelle più strane (la sciamanica). Messaggi che parlavano di unità corpo-mente-emozioni-spirito, in una parola di visione olistica della persona. Questa distanza si va progressivamente colmando anche perché le molte altre medicine, grazie alla visione più ampia, all’umanizzazione che offrono, alla semplicità e al minor costo economico, vanno facendosi terapie di massa. Eppure c’è una branca della medicina, vera promessa per il futuro e avanguardia terapeutica, la Pnei (Psico-neuro-endocrino-immunologia) che ha sostanziato all’occidentale l’olismo, dimostrando come le emozioni (e la mente, più in generale) agiscono direttamente sul sistema immunitario. Ne derivano le cosiddette terapie ipnotiche, le immaginative (in inglese imagery) che riescono a guarire patologie anche gravi. La Pnei (e quel che ne deriva) è ignorata dalla stragrande maggioranza dei medici, ha lo svantaggio di non essere remunerativa dal punto di vista del complesso industrial-sanitario, anche se promette di essere davvero una delle medicine del terzo millennio. Da essa deriva anche, come si è detto, la cosiddetta comicoterapia, che vanta antenati illustri. Proprio a proposito di etnologia, è stata studiata in molte culture (soprattutto in Nordamerica) la figura del buffone rituale, uno sciamano (cioè l’uomo-medicina) delegato anche a essere lo zimbello della tribù (colui, cioè, che incarna l’oggetto del ridere). Egli ha anche la facoltà di deridere chi non ottempera ai dettami della legge non scritta della tribù e dell’umanità più in generale. Dalla Bibbia alla modernità Nella nostra cultura, nel libro fondante di essa, la Bibbia, si legge (Prov 17, 22): «Un cuore giocoso fa bene come un farmaco...». È la risata interiore di Sara, la moglie di Abramo, a sbloccare la sua maledizione e a permettere il miracolo divino che ne fa una madre-ottuagenaria. La donna partorisce Isacco (figlio della risata, oppure colui che ride) capostipite del popolo eletto (e di gran parte della nostra civiltà). Nel teatro greco, invenzione straordinaria per abolire i (pericolosi) riti dionisiaci, la famosa catarsi (purificazione) non avviene dopo aver assistito alla terna delle tragedie (come si tende ad accreditare nei licei). La purificazione avviene alla fine del ciclo di rappresentazioni, di cui la commedia (da komos, rito di Dioniso) è l’apice. È qui che avviene la catarsi (dal verbo katairo, libero dai mostri), i mostri che la tragedia ha giustamente evocato ma che debbono essere sconfitti dal ridere, da pensieri ed emozioni vitali (l’amore, il sesso, il corpo, la politica). La potremmo definire una raffinatissima psicoterapia di massa. Ma anche comicoterapia! L’uso, o semplicemente l’idea che il riso possa essere terapeutico, è testimoniato sia in epoca medievale che più moderna. Di fatto antichi miti e testi concordano con quanto oggi la Pnei asserisce. Antropologia, scienza e arte convergono. In epoca più moderna si ha notizia di compagnie di clowns e buffi personaggi che, durante epidemie di poliomielite negli Usa degli anni ’30, intrattenevano i giovani ammalati. E proprio a New York, forse memori di quelle lontane esperienze, il "Big Apple Circus" forma una care unit, spedendo dei bravi clowns a imparare un po’ di nozioni scientifiche, psicologiche e di igiene ospedaliera, per farli lavorare in pediatria. È subito un gran successo che si contagia alle corsie del mondo occidentale, affamate come sono di umanizzazione. È come se, finalmente, avessimo scoperto le virtù salutari (sanitariamente e socialmente) del buffone rituale dei nativi americani! Quale è il segreto di tanto successo? Quale forza usa questa figura immortale? Cosa fa il clown in ospedale? È utile solo ai bambini? Per rispondere a tutte queste domande dobbiamo fare un altro passo indietro e considerare il circo (luogo in cui nasce la moderna figura del pagliaccio, naturalmente erede del giullare medievale, dei fools, dei buffoni e mimi) nel suo svolgersi. A ben vedere il circo è un luogo di tensione, rischio di morte, mostruosità assortite. Dove altro si trova un uomo che disarmato affronta dieci tigri per volta; oppure un acrobata che rischia la pelle gettandosi nel vuoto; non c’erano forse i fenomeni? La donna cannone, l’uomo serpente, il famoso elephant man. In questo bailamme lo stato d’animo dello spettatore è, a dir poco, teso. Non è possibile pensare di tenerlo troppo a lungo con il fiato sospeso: il clown, intermezzo tra un numero e l’altro, serve proprio a far calare ansia e tensione, angoscia. La risata dunque come antidoto alla paura. In qualche modo anche l’ospedale assomiglia al circo, non tanto per fare una facile battuta, quanto proprio perché luogo di pena, tensione, dolore, paura, purtroppo anche morte. In stretta collaborazione Il clown, divenuto dottore (avendo acquisito, cioè, una ferrea e difficile preparazione specifica e la consapevolezza di esercitare un potere terapeutico) vi si può muovere come un pesce nel suo ambiente, fluidamente, e dispensare emozioni positive nell’esatta misura in cui ogni persona le richiede: dalla risata a squarciagola al sorriso sommesso, da tenere pallide note musicali a una assenza che può significare attesa d’amore, a un’assenza voluta, perché in quel momento, magari, non c’è niente da ridere. È importante comprendere come il clown di corsia operi sempre a stretto contatto con l’équipe del centro o della corsia; anzi, per meglio dire, una volta che il suo lavoro è stato visionato (e apprezzato) dai sanitari egli entra a far parte a pieno titolo dell’équipe curante. In corsia pediatrica la sua opera può essere utile sia nella mattinata che nel pomeriggio. Come è intuitivo questa differenza temporale comporta anche una diversa applicazione del suo estro creativo. I clown-dottori operano in équipe (coppia), possibilmente maschio e femmina, un meccanismo assai collaudato che consente sia di improvvisare (meccanismo Augusto/Bianco) sia di operare su più fronti (bambino/mamma o altro parente), sia di sostenersi vicendevolmente in momenti difficili. Ancora "in borghese" i due operatori (che avranno l’accortezza di essere igienicamente in ordine e sbarbati) si recano nella stanza della caposala o del responsabile del reparto e si informano dello stato della corsia. Pongono al personale domande precise: quanti bambini sono presenti? Vi sono casi particolari? Possono esservi, infatti, diversissime tipologie patologiche, alcune infettive, altre che orientano o impediscono la possibilità di lavorare (bambini appena operati, oppure che in giornata hanno avuto esami invasivi o, ancora, immunodepressi). Possono informarsi, amichevolmente, anche sullo stato del personale per inserire, una volta entrati in ruolo, elementi di sdrammatizzazione anche con il personale. I clown dottori indossano vestiti dai colori male abbinati, troppo grandi o troppo piccoli con delle toppe e molte tasche; potranno avere calze o calzini di diverso colore. Mai la parrucca (camuffamento troppo vistoso, industriale, che crea distacco e, nei piccolissimi, genera timore). Quasi sempre hanno un cappello buffo o demodé oppure accessoriato strambamente. Questo costume deve rendere l’idea che il clown sia povero, emarginato, che ha trovato gli abiti chissà dove (e in effetti il supermercato del clown è la bancarella dell’usato nei mercati rionali). Sopra questo costume si indossa un camice bianco, con pitture e disegni a piacimento, con bottoni spaiati o colorati, a volte bretellone. Qualcuno attacca dei pupazzetti tremolanti, strumentini musicali, cianfrusaglie varie. Per tutto un periodo uno dei clown portò cucito sul retro del camice un pupazzo/clown dell’altezza di circa un metro (Gennarino, il suo assistente) che con due fili opportunamente sistemati era in grado di salutare e di gioire. Sulla schiena o sul taschino si può leggere il nome-clown; ecco alcuni esempi: dott. Spinotto, dott. Patito, dott.ssa Bollicina, dott.ssa Piperita, dott.ssa Ciccibù, dott.ssa Girina, dott. Duemetri, dott.ssa Mezzometro, dott. Bazar, dott.ssa Doda, dott. Rufus, dott.ssa Vitamina, dott.ssa Tuttammille, dott.ssa Ercolina, dott.ssa Endorfina, dott.ssa Zucca. Il trucco del clown-dottore è appositamente studiato per non essere aggressivo o pesante, visto che potrebbe intimorire i piccoli degenti (accade che i bambini molto piccoli abbiano già di per sé paura del clown, poiché troppo dissimile dagli altri adulti). Il clown-dottore reca con sé una valigetta, buffa o démodé, con gli attrezzi del mestiere: scherzi, giochi di prestigio, uno o più burattini, uno o più strumenti musicali, attrezzatura pseudomedica, un ricettario. Al collo un fonendoscopio trasgressivo; in tasca le bolle di sapone e i palloncini. Quando i clown-dottori entrano in reparto così conciati la Gestalt della corsia è già stravolta, cambia l’atmosfera, si respira già aria di caos! Compiti differenti Dicevamo prima che, a seconda se l’intervento è mattutino o pomeridiano, i clown-dottori sono chiamati a compiti differenti. Nel primo caso dovranno assistere gli infermieri in pratiche generalmente invasive e paurose, per lo più prelievi o medicazioni. In questi casi la potente opera di distrazione dei clown deve mettersi in moto: essi accompagneranno, leggermente folleggiando, il bambino nella medicheria e lo accudiranno scherzosamente, facendogli giochi di prestigio e altre corbellerie: tutto questo diminuisce l’ansia e lo stress, sia del piccolo che dell’operatore sanitario. Si vedrà il dottore o l’infermiere con occhi diversi (e costui avrà più calma per compiere le operazioni terapeutiche). Il piccolo si relazionerà a lui in modo più tranquillo: in generale tutta la situazione è certamente meno traumatica. Abbiamo parlato di distrazione, ma l’intervento del clown mette in moto un meccanismo psicofisiologico (quindi non solo mentale) studiato dallo psicoterapeuta e padre dell’ipnosi clinica, Milton Erckson, detto della dissociazione, secondo il quale l’investimento emozionale su stimoli esterni diversi dal proprio corpo (ad esempio le bolle di sapone soffiate dal clown), riduce fisicamente le sensazioni del dolore. Non solo distrazione dunque, ma effetto sul corpo! È questo, a nostro avviso il miglior impiego dei clown di corsia, assieme al momento pre e al post-operatorio. Per entrare nelle medicherie ci sono voluti quasi tre anni, ma ormai, dove siamo conosciuti, ce lo chiedono pressantemente gli stessi medici. Se l’intervento è pomeridiano si tratta in genere di fare un giro visite, stanza per stanza, in modo da essere efficaci con ogni singolo bambino (e genitore presente). Un palloncino in regalo Prima di entrare nella stanza si chiede permesso. È questo un accorgimento cruciale poiché non è detto che la visita dell’équipe dei clown sia ben accetta. La possibilità che il bambino (e/o il genitore) ha di rifiutare è una chance fondamentale da lasciare, poiché si restituisce loro un potere che non hanno con nessun’altra figura del reparto. Per la verità succede molto raramente e, se è il bambino a operare il diniego, state pur certi che dopo qualche tempo, se è in grado, seguirà in qualche modo i clown. In ogni caso, anche ai refrattari, consigliamo di lasciare, magari fuori dalla porta, un piccolo dono (in genere un palloncino). A permesso accordato i due clown si possono "scatenare" (per quanto possibile in una situazione del genere): la loro capacità di ascolto detterà quasi subito le coordinate dell’intervento che diviene così anche diversissimo da stanza a stanza: varierà a seconda dell’età dei ricoverati, del parente presente, del tipo di patologia, del livello di energia espresso dal bambino, se nella stanza vi sono più bambini, se è accesa la Tv, e così via in una quantità infinita di variabili. Molto importante è il ruolo che i clown di corsia affidano ai genitori (o altri parenti) presenti nella stanza. Spessissimo si entra in contatto con il bambino attraverso il genitore; il sorriso o la risata di questi spalancano le porte del cuore del piccolo. Spesso questi è preda di una spirale di ansia: lui sta male, la madre è in angoscia, il bambino subisce l’aggravamento dipendente da quell’angoscia. Strappare la madre a quello stato, mediante un’azione comica non invasiva, fa migliorare la condizione del piccolo quasi automaticamente. La consapevolezza del ruolo, la cautela, la dolcezza e la follia sono caratteristiche importanti di questi interventi, così come la coscienza di essere molto utili al personale. In effetti il lavoro dei clown di corsia è dedicato a tutta la comunità del reparto, dal primario all’inserviente. L’energia contagiosa dell’équipe comica deve essere messa al servizio di tutti e più riusciamo a coinvolgere le persone nel delirio buffo, più la nostra missione ha successo. Dietro le buffonate Attraverso il clown di corsia, figura amica del bambino (bambino birichino lui stesso), il piccolo paziente rielabora l’esperienza ospedaliera in modo non traumatico, riesce a dar voce al suo dolore e alla sua malattia, subisce così piano piano una catarsi che lo rende libero dalle angosce e dalle ansie, conseguenze inevitabili della degenza. I clown-dottori non sono i "forzati della risata", in certe occasioni il riso e persino il sorriso appaiono francamente fuori luogo, stonati. L’esempio limite è dato dall’imminenza dell’evento estremo. Lì il clown deve gettare la maschera e restare, se bene accetto, lì a disposizione nell’autenticità del suo essere persona. Spesso, in queste situazioni, dato il rapporto affettivo preesistente è la famiglia a chiedere conforto al clown, a maggior ragione fuori dal suo ruolo. Sono momenti di un’intensità emotiva quasi insostenibile e può essere di conforto soltanto la consapevolezza di una condizione trascendente della vita. Il clown-dottore deve riuscire ad adattarsi alle varie situazioni, non è una figura rigida e stereotipata, in ogni momento il clown può decidere di smettere il naso rosso e scegliere di partecipare come persona umana. C’è da ricordare che questi operatori, come qualsiasi altra persona che lavora a contatto con gli individui (insegnanti, operatori sociali, medici, infermieri...) lavora con e sulle emozioni, sia sue che quelle del paziente. Per poter dunque operare al meglio, necessita che il clown-persona faccia un percorso su sé stesso; percorso di consapevolezza e di conoscenza riguardo al proprio vissuto, e alla propria esperienza di vita, che a volte è difficile razionalizzare e portare a livello cosciente, ma sulla quale è utile far luce, per sciogliere i nodi che ancora nel presente ci condizionano e ci tengono legati all’infanzia o comunque a momenti di forte sofferenza fisica e interiore. Fuori dalle pediatrie La figura buffa, con indosso la divisa per come l’abbiamo descritta, oppure senza, in incognito è comunque utile in tutti i contesti socio-sanitari. La nostra compagine, oltre che in pediatria, ha operato con gli anziani (anche affetti da Alzheimer), con diversabili adulti di tipo motorio e mentale, con pazienti psichiatrici, in oncologia adulti, con persone anziane e meno in lungodegenza, nei reparti di riabilitazione. E poi nel sociale, a scuola, presso le carceri, nelle missioni umanitarie all’estero (la più lunga, in Afghanistan, dalla quale abbiamo portato indietro Clownin’ Kabul uno straordinario film-documento sul nostro lavoro in territorio di guerra). In ognuno di questi luoghi il clown-dottore dovrà avere un approccio diverso (applicare la comicoterapia attiva o passiva, indossare o no il camice), ma per certo non solo è ben accetto, ma se la sua opera riesce a essere continuativa, diviene quasi indispensabile. C’è stato persino un caso, presso un importante laboratorio di analisi di Roma, in cui i nostri operatori erano perfettamente mimetizzati tra le persone in attesa di un esame endoscopico invasivo. In incognito creavano situazioni di forte ilarità, magari semplicemente parlando al telefonino (ad alta voce) oppure sbucciando dei teneri pisellini freschi. Queste varie situazioni si prestano tutte a sperimentazioni, vanno documentate e poi trasferite ad altri sia nei nostri appositi corsi di formazione per clown-dottori, che nei corsi di aggiornamento che sempre più spesso il personale socio-sanitario e gli insegnanti ci richiedono. Nasce così un organismo specifico dell’associazione dedicato interamente alla ricerca, alla documentazione e alla formazione: Homo Ridens, Istituto di gelotologia. Siamo certi che questa materia possa e debba avere in futuro un grande sviluppo, che le istituzioni debbano recuperare il tempo perduto e, riconoscendo la figura professionale, in armonia con le associazioni, possano delineare processi formativi omogenei e innovativi. Leonardo Spina
e Sonia Fioravanti
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