iciamolo
pure: anche l’amicizia ha i suoi nemici. Ha ispirato, certo, le pagine
più toccanti dell’epica classica, dalla virile camaraderie di
Achille e Patroclo nell’Iliade al giovanile e pericoloso entusiasmo
di Eurialo e Niso nell’Eneide. Ma quante cattiverie, e che
contrappasso di malignità, le sono toccati dall’età dei "Lumi"
in poi. Ecco qualche esempio. Nicolas Chamfort, cronista della Rivoluzione
francese, a chi gli diceva: «Avete un’opinione troppo cattiva dei vostri
conoscenti, esiste anche il bene», rispondeva: «Il diavolo non può essere
dappertutto!». È vero, Chamfort morì suicida nel 1794 per non salire la
ghigliottina che i giacobini gli avevano già preparato, forse proprio a
causa di frecciate come questa. Ma altri hanno preso il suo posto in epoche
meno pericolose. Oscar Wilde, per esempio: «È molto pericoloso conoscere i
propri amici». E Friedrich Nietzsche: «Un buono scrittore non ha solo il
proprio spirito ma anche quello rubato ai propri amici». Dai dubbi di Ennio
Flaiano («Se gli uomini si conoscessero meglio si odierebbero di più»)
fino al totale, definitivo scetticismo di Antonio Fogazzaro: «Non mi fido
dell’umanità, mi somiglia troppo».
Eppure, senza amici si può
campare, ma si campa male. Al punto che il grado di soddisfazione nei
confronti dei rapporti amicali è uno degli indici che i ricercatori usano
per misurare la qualità della vita, insieme con aspetti assai concreti come
il matrimonio, il lavoro, i risparmi, la salute e l’abitazione. La più
fresca di tali ricerche, la Sinottica-Eurisko, in due rilevazioni (primavera
e autunno 1999) che hanno cumulato 10.000 casi di italiani di età superiore
ai 14 anni, mostra che il 24,3% del campione è soddisfatto dei propri
amici. Percentuale che sale se si considerano il solo Nord-ovest (28,5%) o
il solo Nord-est (27,1) e scende nel resto d’Italia (22,6 nel Centro e
20,5 nel Sud e nelle Isole), ma comunque consente di dire che un italiano su
quattro si ritiene dotato di buoni amici.
Non pare un brutto risultato. E
allora come metterla con quella convinzione diffusa che l’amicizia sia
ormai in ribasso soprattutto tra i maschi adulti, schiacciati come sono (o
come dicono di essere) tra lavoro, famiglia, mancanza di tempo, stress?
«A me non
pare che l’amicizia sia un sentimento in disuso. Vedo che gli uomini
adulti vivono, rispetto all’amicizia, in uno stato di perenne tensione»,
dice Franco Garelli (ndr), docente di Sociologia della conoscenza
presso l’Università di Torino. «Da un lato c’è il desiderio, il
bisogno e il rimpianto
dell’amicizia, cioè di un rapporto disinteressato,
di confidenza, in cui ci si senta davvero accettati per ciò che si è. E c’è
la sensazione, a volte pesante, di dover fare una strada da soli, di essere
in un certo senso costretti alla solitudine. Dall’altro lato ci sono le
rigidità, le condizioni che frenano il desiderio di amicizia: da adulti si
perde in spontaneità e guardiamo agli altri in termini più selettivi,
quasi che nelle relazioni avessimo bisogno di una maggiore conferma. E
quindi siamo meno disposti alle relazioni gratuite. Una cosa è sicura: l’uomo
che coltiva amicizie anche nell’età adulta è più ricco e sereno».
- Forse i rapporti affettivi
"classici" dell’uomo adulto, la famiglia, la moglie, la
compagna, riempiono lo spazio psicologico disponibile.
«Non direi,
non sono alternativi o sostitutivi delle amicizie. Le donne sono fortunate
perché sono più abili nella comunicazione dell’intimità. Ma anche gli
uomini hanno bisogno, su questi temi, di un confronto liberante».
Claudio Camarca, giornalista e
scrittore (il suo ultimo libro, Il sorriso del mondo, è il racconto
di sei mesi passati con i medici di Operation smile, che girano il
mondo per curare i bambini vittime di deformazioni facciali), è d’accordo:
«Credo che l’amicizia sia un bisogno per gli uomini come per le donne: il
bisogno fisico di avere intorno un gruppo, magari ristretto, di persone che
sanno tutto dei tuoi lati deboli e che ti vogliono bene proprio per questo.
Il fatto di avere un amico, Angelo, che conosce le mie paure e i miei
difetti, che invecchiando pure aumentano, mi dà forza».
Quando dice: "bisogno" e
"fisico" e "forza", Camarca intende proprio quello. Ha
giocato a rugby per 17 anni e sa quanto sia importante avere accanto
un volto noto e fidato, in quel gran pacchetto di mischia che a un certo
punto diventa la vita. Anche se l’amicizia è un fiore esigente: «Il
venerdì o il sabato, una settimana sì e una no, io e mia moglie facciamo
il barbecue in giardino proprio per rivedere gli amici», racconta: «E
l’ultima volta ho strigliato due dei miei migliori amici perché non
troviamo più il tempo per incontrarci e stare un po’ insieme. Prendere un
aperitivo prima di andare a casa dopo il lavoro, un caffè dopo cena. Magari
non parli ma comunque si crea un’atmosfera che poi è importante sul
lavoro, in famiglia... È decisivo poter dire: qualunque cosa accada, c’è
un mio amico».
- Ma gli uomini riescono a fare
nuove amicizie anche quando sono adulti? O si tratta piuttosto di
conservare le amicizie vecchie?
«Ho degli
amici dell’infanzia da cui, però, nel corso degli anni mi sono separato.
Abbiamo fatto strade diverse, che ci hanno allontanati. Ma ho anche tre
amici storici, amici da vent’anni. Angelo è un reporter di guerra,
ci siamo conosciuti sul lavoro. Gli altri due sono: uno giornalista e l’altro
fotografo, e li ho incontrati andando in Africa, dunque di nuovo per ragioni
legate al lavoro. Credo quindi che anche "nel mezzo del cammin di
nostra vita" si possano conoscere altri uomini e diventarne amici. La
grande domanda è: "sei disposto a essere sincero?". Perché l’amicizia
virile non può non essere sincera e quindi scomoda, in un mondo in cui la
sincerità non paga. Ma sempre a proposito di sincerità, uno dei miei più
grandi amici è stata una donna ed era un’amicizia vera, profonda, virile.
Lei è morta l’anno scorso. Ci vedevamo ogni venerdì sera a casa sua, dal
1984, per bere un whisky di malto torbato e parlare di tutto. Ecco, sapere
che Esa c’era per me era come l’ossigeno».
Il rugby di Camarca. E il
resto dello sport? Il cemento dello sforzo di gruppo, il risultato da
raggiungere insieme, fanno ancora presa sugli spiriti maschili? «Se
pensiamo allo sport professionistico», dice Gian Paolo Ormezzano,
giornalista e scrittore, osservatore di storie e costumi oltre che di
prestazioni e record, «si va verso la fine ufficiale delle amicizie che si
dipanano per tutta la carriera. Ormai ognuno corre e anche gioca per conto
suo, la vera amicizia è casomai con il manager, l’agente, il procuratore,
che sta diventando il vero elemento umano fisso a fianco dell’atleta, del
campione. La pressione mediatica, poi, sembra fatta apposta per collaudare
duramente le amicizie non fortissimamente consolidate: si pensi a
Inzaghi-Del Piero. Una parola in televisione spezza un legame».
«Tengono
meglio perché per molte di loro lo sport è ancora pionierismo, avventura,
lotta contro l’establishment, dunque occasione di amicizie utili,
per via dell’unione che fa la forza».
- Un quadro un po’ triste...
«Non è
detto. Lo sport d’oggi, con i suoi meccanismi economici e anche con le sue
esigenze di ribalta, di spostamenti, non solo non favorisce l’amicizia ma
la rende obiettivamente più difficile. Le amicizie che riescono a fiorire e
a resistere fra gli atleti, però, sono più importanti. Magari si scopre,
presso campioni celebri, l’esistenza difesa, coltivata, protetta di un’amicizia
antica. Spesso con un collega meno fortunato. Amicizia specialissima, che
lega il goleador celeberrimo all’amico d’infanzia che ha fatto naufragio
in qualche squadretta e che comunque ha sempre accesso presso il cuore e
anche nell’alloggio del campione. Quasi che quest’ultimo eseguisse una
specie di riparazione nei riguardi di chi non ha avuto la sorte benigna».
Don Antonio Mazzi, fondatore della
comunità "Exodus" e sacerdote abituato a leggere il disagio degli
adulti anche attraverso il mondo dei giovani, non sembra stupito dalla vita
grama dell’amicizia. E trasferisce il discorso su un piano più ampio: «C’è
poco amore, in giro, e quindi poca amicizia. Ci sono tanti innamoramenti e
simpatie, ma la trasformazione dell’innamoramento in amore e della
simpatia in amicizia è un passaggio difficile, esige spiritualità,
interiorità, uno spessore d’animo che non si trova poi così spesso. E
non mi pare un problema solo degli adulti: anche tra i giovani, oggi, c’è
poca amicizia, fanno piccoli gruppi che durano poco. L’amicizia l’abbiamo
messa tra le cose "usa e getta", invece è qualcosa di molto più
profondo. La simpatia è facile, è legata alle cose che tocchi, che vedi.
Così come molte coppie vanno al matrimonio ma sono solo innamorate. L’innamorato
è uno che sta tra il sogno e la realtà, tra ciò che vorrebbe e ciò che c’è.
Amore invece vuol dire accettare quella persona lì, con i suoi limiti, e
amarla lo stesso, anzi amarla proprio perché limitata. Molte amicizie non
nascono per lo stesso principio: più facile accontentarsi delle simpatie».
- È anche lei convinto che sia
soprattutto un problema degli uomini, che per le donne sia diverso?
«Tutto aiuta
la donna a essere molto più profonda di noi uomini. La donna si salva
sempre perché c’è di mezzo la maternità, che le fa fare un salto al di
là – oserei dire – della ragione. Ci sono uomini che dicono: "io
sono un geni-tore" ma non sono anche padri, mentre è difficile che una
donna sia solo genitrice, è sempre anche madre. E se mancassero le madri al
mondo?...».
Fulvio Scaglione