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Dare
prospettive diverse ai ragazzi di strada. Impegnarsi perché chi rinuncia
alla scuola possa trovare maestri speciali. È l’ambizione di
"Chance", il programma che cambia in buona la cattiva sorte. E i
risultati non mancano. «La
loro unica abilità scolastica, prima di arrivare qui – si legge sulla
quarta di sovracoperta di Gli ultimi della classe, di Paola
Tavella, sottotitolato: "Un anno con i ragazzi e i maestri in una
scuola di strada a Napoli", pubblicato da Mondadori –, era quella
di far scappare in lacrime gli insegnanti. Ciro, per esempio, ne ha fatti
fuori diciassette prima di incontrarne una particolarmente ostinata.
Quella ha dovuto picchiarla. Lo hanno espulso, lui è finito per strada
dove s’è trovato benissimo, e nessuno di certo è andato a cercarlo,
finché non sono arrivati questi strani maestri».
Gli strani maestri sono "quelli di Chance".
Sono maestri di strada. Irriducibili. Come i ragazzi con i quali lavorano.
Cesare Moreno, Marco Rossi Doria e Angela Villani, con la loro sequela di
compagni e il loro bagaglio di esperienze accumulate in anni di lavoro
finalizzato alla ricerca e al recupero dei dispersi, a quelli che la
scuola in qualche modo non raggiunge o dimentica, mettono al servizio di
un nuovo progetto le loro storie, recuperando anche tutta la trama tessuta
dalle tante piccole esperienze che la scuola napoletana deve a un esercito
indomabile di operatori. Il progetto Chance ha alle spalle tutto questo e
la lungimiranza di una legge, la n. 285 del 1997, voluta dal ministro per
la Solidarietà sociale Livia Turco, a favore della promozione dei diritti
e delle opportunità dell’infanzia e dell’adolescenza, che lo
finanzia.
Nel cuore del progetto ci conduce proprio Cesare Moreno,
coordinatore del modulo di Barra - San Giovanni, quartieri problematici
della periferia est di Napoli. La sua storia professionale è legata ai dropout.
Da quando ha cominciato a insegnare si occupa, infatti, di dispersione
scolastica. Anzi, dice di aver cominciato a insegnare proprio per
occuparsi di questo, quando, negli anni Settanta, in seguito a ricerche e
indagini condotte nelle scuole medie delle periferie ma anche del centro
di Napoli, scopre che, per esempio, nelle terze medie, in classi che
partivano all’inizio dell’anno con scolaresche di 30 alunni, si
arrivava appena a presenze di appena 7, 8, 9 alunni senza avere alcuna
notizia degli altri e del perché questo accadeva.
Restava soltanto la realtà di una scuola dell’obbligo
che funzionava per meno della metà dei ragazzi. Ma anche la storia
personale di Cesare è in qualche modo legata al fenomeno. È in famiglia,
durante gli anni della sua infanzia che ha a che fare con chi respinge la
scuola.
«I problemi della dispersione scolastica – racconta
– li abbiamo affrontati "familiarmente". Mia madre, che
insegnava nel quartiere, qualche volta mi mandava a prendere a casa i
bambini che non andavano a scuola. Avevo dieci anni allora e facevo il
lavoro che adesso fanno gli assistenti sociali. Certamente non era la
situazione di oggi, io ero un bambino e mia madre era l’insegnante di
San Giovanni. Non so se all’epoca fosse l’unica insegnante, ma
certamente era una delle pochissime del luogo.
«Mia madre non sapeva neppure che esistesse l’assistente
sociale, era semplicemente una maestra che si poneva il problema che se il
bambino non andava a scuola, bisognava sollecitarlo e il più delle
sollecitazioni le faceva strada facendo. La mattina andando a scuola si
tirava dietro i bambini. In questo modo, a suo tempo, e questo accadeva
negli anni ’50, mia madre è uscita fuori della dimensione della classe».

Copertina del libro di Paola Tavella citato nell’articolo.
Un metodo integrato
"Chance" nasce da una riflessione forte, che
fa emergere la «distanza tra un sapere spontaneo e un sapere
formalizzato, scolasticizzato, per cui l’analfabetismo e il cattivo
rendimento scolastico non sono lo specchio di una incapacità a
comprendere, ma lo specchio di una incapacità della scuola a capire il
linguaggio e le modalità del ragazzo». Da qui, dunque, l’esigenza di
fare una scuola media diversa, che sia e si affermi veramente come
"scuola della seconda opportunità".
"Chance" è un progetto integrato, che
riunisce intorno allo stesso tavolo, e con la stessa dignità, scuola,
comune e università. Sulla faccia di Moreno si legge tutta la
soddisfazione del fatto di essere stati tra i primi a sperimentare questo
tipo di collaborazione. Tre i moduli in cui si articola il progetto: San
Giovanni - Barra coordinato da Cesare Moreno; Soccavo da Angela Villani e
Quartieri Spagnoli da Marco Rossi Doria.
«La partecipazione dell’università al progetto –
sottolinea – garantisce il rigore scientifico del progetto stesso
perché ciò che si produce è scienza. Quando lavoriamo, noi produciamo
un miglioramento delle condizioni sociali, promuoviamo lo sviluppo dei
soggetti che intervengono e tra questi c’è la famiglia in modo
decisivo. Produciamo conoscenza scientifica di come si fa ad affrontare
questi problemi. Per questo c’è bisogno di una seconda linea,
scientifica ma anche psicologica, che raccolga quello che si fa, ma
soprattutto che lo restituisca. «Ecco, dunque, la necessità di avere in
squadra un soggetto, come l’università, che condividesse le nostre
stesse responsabilità, che riflettesse sull’esperienza insieme a noi,
aiutandoci a capire come migliorare l’esperienza e assistendo gli
insegnanti, gli operatori che a loro volta assistono i ragazzi. Per noi i
gruppi di discussione che facciamo ogni 15 giorni sono il luogo dove si
cura il cuore del progetto».
Il recupero dei ragazzi si svolge sui fronti umano,
sociale e scolastico. Innanzitutto, gli sforzi sono rivolti a ricostruire
la relazione umana, persa o addirittura non vissuta in un ambiente
familiare sbandato e in un contesto sociale altrettanto disgregato; la
"relazione accogliente", la capacità di stare tutto il giorno
con il ragazzo e di stare dalla parte del ragazzo, perché «uno sguardo
amico – Moreno ne è convinto – fa crescere la gente».
Attraverso un resoconto quotidiano, il ragazzo viene
orientato a prendere coscienza di sé, del proprio impegno e a tal fine,
è prevista anche la corresponsione di una "paghetta",
consistente in lire 10.000 a settimana. Ogni tre mesi, convocate le
famiglie, alla presenza dell’assistente sociale, i soldi guadagnati
vengono ritirati dal ragazzo dopo che il genitore ha apposto la sua firma
per ricevuta.
Chi sono i ragazzi di "Chance"? Sono i ragazzi
che vengono dalla strada, i dispersi, gli irriducibili, quelli nei
confronti dei quali i servizi sociali hanno fallito, quelli chiamati dal
giudice, quelli multati, e, ciò nonostante, a scuola non vanno. Ragazzi
depressi e aggressivi, che hanno quindici anni e molti fallimenti alle
spalle. «È gente, non solo i ragazzi, ma l’intera famiglia –
continua Moreno –, che ha perso la speranza, che dorme fino a
mezzogiorno. In certi casi la nostra attività è la sveglia, la
telefonata per svegliarli. C’è disoccupazione, miseria, avvilimento,
mancanza di attività, di speranza. Il campionario di disagi e di
situazioni di estrema crudezza, davanti al quale ci siamo trovati, è
alquanto vario. Abbiamo la ragazza che non esce di casa perché si vede
brutta, ragazzi di 12 e 13 anni che, privati del gioco e dell’infanzia,
si trovano a dover assistere i genitori affetti da disturbi mentali, figli
di genitori agli arresti domiciliari, persone coinvolte in faide
familiari, figli ultimi di tutta una stirpe di galeotti finiti male che ci
dicono: "Io non voglio fare la fine di quelli". Noi abbiamo a
che fare con gli ultimi e non con i primi della classe, con i perdenti,
con gli sconfitti, anche se boss».
Nulla a "Chance" è lasciato al caso. I
ragazzi, attraverso la segnalazione dei servizi sociali, vengono raggiunti
da una comunicazione scritta indirizzata alla famiglia, in cui si invitano
genitore e ragazzo a un incontro che avviene presso i servizi sociali alla
presenza dell’assistente sociale e dell’insegnante.
Sia al genitore che al ragazzo viene spiegato in cosa
consista il progetto e perché quella è una scuola diversa.
Successivamente, in un secondo incontro, il confronto è soltanto con il
ragazzo, al quale si cerca di rimandare un’immagine di sé come persona
responsabile, da rispettare nella sua individualità e indipendenza, e non
come appendice del genitore. Le risposte, e questo è il successo del
progetto, si sono avute.
Dopo il primo anno di attività ("Chance" è
al suo secondo anno) il bilancio è positivo: i cosiddetti irriducibili
hanno al loro attivo il 95% delle presenze e sono ritornati per il secondo
anno. Addirittura alcuni arrivano presto la mattina, ancor prima dell’inizio
(ore 9.00) delle attività, il che ha comportato l’organizzazione di una
sorta di "antescuola" per trattenerli. Se frequentano, dicono
quelli di "Chance", è perché si rendono conto che in questa
scuola possono crescere veramente, che "Chance" è una
possibilità.
Una possibilità anche per la famiglia di origine dei
ragazzi; questa famiglia così in forte disagio e in difficoltà, che non
sempre offre solidarietà, ma spesso rifiuto, distanza. Il lavoro di
"Chance" è, dunque, rivolto al riscatto, in qualche modo, anche
di questa famiglia da cui deriva ai ragazzi l’immagine pessima che hanno
di se stessi. I genitori non sono convocati soltanto per la paghetta o per
la valutazione, ma anche per vivere insieme momenti di festa e di
condivisione del lavoro che i ragazzi svolgono. Per questo gli operatori
realizzano film che genitori e figli vedono poi insieme, per restituire
alla famiglia un’immagine positiva del ragazzo, per mostrare il figlio
come i genitori non l’hanno mai visto, un figlio che cresce, che
migliora.
«La speranza, in fondo, non è mai persa – conclude
Cesare Moreno –, non è vero quello che dicono tanti che con l’adolescente
non c’è niente da fare. L’uomo non è mai senza speranza. La
possibilità del riscatto c’è sempre anche se si trova nel peccato più
nero, nella sofferenza più profonda. Non c’è bisogno d’essere
cristiani per dirlo, questa è semplicemente esperienza umana».
Clotilde Punzo
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