n. 6 settembre-ottobre 2013
L'arte della preghiera
di Vincenzo Marras
Un carisma tutto pastorale
di Silvio Sassi
Il Capitolo generale delle Figlie di San Paolo
a cura delle FSP
I 130 di Gazzetta d'Alba
di Maria Grazia Olivero
Decreto della Penitenzeria Apostolica circa l'indulgenza per il Centenario
a cura di Alberto Fusi
Il futuro scaturisce dalle radici
di Filippa Castronovo
Valore del Carisma pastorale
di Annarita Cipollone
La Famiglia Paolina nel mondo
a cura della Redazione
Una vita e un cuore di pioniera
di Mercedes Mastrostefano
Non lasciamoci rubare la speranza
di Anna Pappalardo
Il Concilio ci interroga
di Carlo Cibien
In ascolto dello Spirito
di Stefano Stimamiglio
Preghiamo per...
a cura di Luigi Giovannini
L'inizio di un lungo cammino
a cura di Francesca Baldini

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EDITORIALE
- L’ARTE DELLA PREGHIERA

della REDAZIONE
L’ARTE DELLA PREGHIERA
Nel segno della pastoralità abbiamo aperto questo terzo
anno di preparazione al Centenario della nascita
della Famiglia Paolina, che si estenderà fino al 26 novembre
2014: i centotrent’anni di Gazzetta d’Alba, il settimanale
che è posto nel grembo della storia paolina (giusto cento
anni fa, nel settembre 1913, il vescovo Giuseppe Francesco
Re affidò al giovane don Alberione la direzione del settimanale
diocesano), e la Lettera del Superiore generale, don
Silvio Sassi, che indica nello stile
“pastorale”, l’elemento distintivo della
nostra identità carismatica. Nel segno
della pastoralità deve essere anche
la nostra vita interiore, la nostra
vita spirituale, la nostra preghiera,
che non deve essere chiusa su noistessi,
sulle nostre fragilità, ma aperta,
“inquietata” dalle necessità del
gregge. Anche la nostra preghiera –
mi verrebbe da dire, riprendendo le parole
di Papa Francesco – deve avere
“l’odore delle pecore”.
Si tratta allora di riapprendere l’arte
della preghiera, difendendola dai troppi
fraintendimenti che la soffocano e la rendono
arida. È il lamento di Dio per bocca del
profeta Ezechiele: “Io ho cercato fra loro un uomo
che costruisse un muro e si ergesse sulla breccia
di fronte a me, per difendere il paese perché io non
lo devastassi, ma non l’ho trovato” (22,30). In un piccolo libro
di Anthony Bloom, metropolita della chiesa ortodossa russa
(La preghiera giorno dopo giorno, edizioni Qiqajon), c’è un
capitoletto che ha per titolo “Sferruzzando davanti a Dio”. A
una signora che gli aveva posto il problema di aver pregato
quasi incessantemente per quattordici anni senza avere mai
avvertito la presenza di Dio, il religioso le suggerì di mettere
da parte quindici minuti ogni giorno, restando seduta a sferruzzare
davanti al volto di Dio. Stare nella vita sferruzzando
davanti a Dio. In altre parole portare la vita davanti a Dio.
Per riappropriarsi dell’arte della preghiera, occorre, perciò,
afferrare due movimenti essenziali e complementari:
dalla preghiera alla vita e dalla vita alla preghiera. Non si
può pregare mettendo tra parentesi le situazioni concrete
della vita. C’è, deve esserci un dialogo essenziale tra la preghiera
e la vita. Proprio questo “dialogo” siamo chiamati a
realizzare. È così che tutti gli avvenimenti diventavano per
don Alberione argomento di preghiera e di meditazione. Nella
preghiera egli sapeva trovare la calma, la lucidità, la carica
di fede che gli permetteva di vivere il senso profondo della
missione, secondo quella descrizione impareggiabile che
di lui fece Papa Montini, il 28 giugno 1969: “Eccolo: umile,
silenzioso, instancabile, sempre vigile, sempre raccolto
nei suoi pensieri, che corrono dalla preghiera all’opera, secondo
la formula tradizionale: ora et labora”.
Qual è dunque il “colore paolino” di cui deve essere informata
la nostra preghiera? È quella che troviamo espressa in
molte lettere dell’apostolo Paolo. Del resto non si è missionari
se non si è uomini di preghiera. Può bastare ripercorrere i
primi capitoli della Prima Lettera ai Tessalonicesi, dove
l’Apostolo fa riferimento alla sua preghiera: “Rendiamo sempre
grazie a Dio per tutti voi” (1,2); “Rendiamo continuamente
grazie a Dio perché, ricevendo la parola di Dio, l’avete accolta
non come parola di uomini ma, qual è veramente, come
parola di Dio, che opera in voi credenti”
(2,13); “Quale ringraziamento possiamo
rendere a Dio riguardo a voi,
per tutta la gioia che proviamo a causa
vostra davanti al nostro Dio, noi
che con viva insistenza, notte e giorno,
chiediamo di poter vedere il vostro
volto e completare ciò che manca
alla vostra fede?” (3,9-10).
Se la preghiera è essenzialmente ascolto, in essa sperimentiamo non solo
la possibilità di aprirci a Dio, di
ascoltare la sua voce, di entrare in comunione
con lui, ma quella di entrare,
con Lui, in comunione con tutta l’umanità.
Del resto la preghiera di Gesù, come ha
scritto il piccolo fratello di Gesù, Arturo Paoli,
“ha sempre come causa la sua convivenza
con i fratelli. Egli ha fatto sue le sofferenze degli
uomini, i loro peccati, i loro conflitti e tutta l’estrema povertà
e fragilità dell’uomo. È tutto questo che fa vibrare il suo ricorso
al Padre. Egli non prega per procura. Egli è il lebbroso, il
povero, il peccatore, il disperato, il vinto dalla vita che pieno di
speranza grida, piange, tende le sue mani al Padre che ha promesso
di amarci eternamente”. Ecco, conclude il centenario piccolo
fratello, che con la nostra preghiera mettiamo a disposizione
di Dio “il nostro cuore sciupato, talvolta devastato, ma è tutto,
non abbiamo altro da dargli. Eppure Lui ha bisogno di questa
nostra preghiera per continuare a mettere nel mondo la presenza
dell’amore che infallibilmente lo porterà alla salvezza”.
Scrive il teologo Carlo Molari: “Pregare non è chiedere a
Dio di intervenire al nostro posto, ma è aprirsi alla sua azione
per diventare capaci di accoglierla in modo così ricco
da essere in grado di compiere per noi e per gli altri ciò
che la vita ci chiede. La preghiera è appunto l’atteggiamento
che l’uomo assume per accogliere l’energia vitale che gli
viene continuamente offerta; è l’esercizio quotidiano per
aprirsi alle forme nuove di esistenza ed accogliere la forza
creatrice in modo da esserne sempre pieni. È come quando
ci mettiamo sotto il rubinetto con le mani chiuse: l’acqua
scorre e non possiamo trattenerla. Quando invece apriamo
le palme siamo in grado di raccogliere almeno un po’ della
tanta acqua che è a nostra disposizione. Pregare è aprire
le mani perché un po’ dello straripante dono di Dio possa
essere interiorizzato”. Solo così la nostra preghiera diventa
sorgente vitale della nostra azione apostolica.
Vincenzo Marras
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